Il cigno nero

Avevamo amato, come un po’ tutti, The Wrestler, e la capacità di Darren Aronofsky di immergere gli spettatori nello spietato milieau del wrestling statunitense e, soprattutto, nel dramma personale e professionale di Randy “The Ram” Robinson, ovvero l’immenso Mickey Rourke che il regista, ricevendo il Leone d’Oro a Venezia nel 2008, aveva giustamente voluto accanto a sé sul palco. Per contro, abbiamo provato  forte irritazione  (anche  rivedendo il film  dopo l’anteprima veneziana dello scorso settembre) per questa sua incursione nel mondo, all’apparenza dorato ma certo intriso di violenza,  specialmente psicologica, del New York City Ballet.  Le premesse erano peraltro favorevoli giacché, pur mutando l’ambientazione, il regista poteva insistere sugli stessi tasti: l’ossessione del corpo, ancora una volta “strumento” di lavoro, il narcisismo, il mito del successo, il fallimento (temi ricorrenti del resto anche nei suoi primi film, magari poco noti al pubblico, ma con cui si era guadagnato l’aura di autore di culto).   Ma laddove The Wrestler brillava per verità, realismo e introspezione psicologica,  qui  sono i clichés narrativi a prendere il sopravvento, specie nella caratterizzazione dei personaggi. Quel che è peggio, il film -che non può sottrarsi all’inevitabile confronto con i tanti “ballet movie” della storia del cinema- vira progressivamente dalla sua dimensione drammatica (e un po’ melodrammatica) di  thriller psicosessuale  verso un registro horror con effetti  – almeno a nostro giudizio – assai poco  credibili.

La confezione è comunque di lusso, e le varie nomination agli Oscar stanno lì a dimostrarlo (tra queste citiamo quella per la fotografia di Matthiew Libatique, molto abile a desaturare i colori come a giocare sui chiaroscuri). Lussuoso è in primo luogo il cast,  a cominciare dalla bella Natalie Portman, che è Nina, la giovane protagonista, la quale vive solo per la danza e per il successo, sotto la forte pressione psicologica di un rapporto quasi simbiotico e sicuramente morboso con la madre (Barbara Hershey), ex ballerina che aveva interrotto la sua carriera proprio per la maternità (situazione che ricorda quella di un film come Due vite una svolta di Herbert Ross, 1977). La Portman probabilmente porterà a casa l’Oscar (dopo il Golden Globe), ma appare sovrastata dall’impegno, come in fondo  accade al suo personaggio: deve infatti affrontare il doppio ruolo di Odette e della sua sosia Odile – il Cigno bianco e quello nero-  secondo i voleri imperiosi e manipolatori del direttore artistico del balletto Thomas Leroy (un convincente Vincent Cassel), che la sceglie per il leading role del “Lago dei cigni” di Ciajkovskij.  Una performance la sua che,  più di quanto esigerebbe il copione, la vede sempre un po’ algida e spaurita, anche nelle scene erotiche che vorrebbero essere torride, in particolare quelle di amore lesbico con la brava Mila Kunis, che è la sua rivale Lili, o nel confronto con la terrifica Beth (Winona Ryder),  ex prima ballerina che Nina ha ora rimpiazzato. Insomma, preferiamo ricordare la Portman sensuale e sbarazzina di  Closer di Mike Nichols, ma bisogna riconoscerle di aver voluto cimentarsi (lei, ex danzatrice) nelle parti di balletto, in ciò aiutata dal suo compagno nella vita, Benjamin Millepied, coreografo del film (che vediamo ballare in scena con lei nel finale).

“Voglio solo essere perfetta” ripete come un mantra a Leroy  e a  se stessa Nina, ma, il suo corpo espone  i segni della dura tensione competitiva  con le sue compagne di ballo e ancor più con la sua parte nascosta, il suo doppio (che Nina incrocia già in una delle  sequenze iniziali del film): inspiegabili graffiature che le solcano la schiena, e poi, in un crescendo allucinatorio, unghie incarnite, piedi che diventano pinne, sino alle piccole piume nere ed acuminate che coltiva in grembo (dove, se no?) e che la dissangueranno nel finale.  La scissione narcisistica e le pulsioni autodistruttive di Nina sono sottolineate da una scenografia affollata da specchi e da un uso efficace ma insistito della camera a mano, per  sussultorie soggettive nei claustrofobici e labirintici interni (quelli della casa-prigione e dei sotterranei del teatro), ma anche per piani ravvicinati nelle scene di danza. Le celebri melodie del balletto accompagnano la narrazione e irrompono a tutto volume nel climax conclusivo in cui Nina (la sera della prima, sotto gli occhi della madre e del suo mentore) eseguirà  l’ultima piroetta nel vuoto, giusto in tempo per ricordarci che la perfezione (raggiunta) è la morte, prima della dissolvenza in nero che non può non ricordarci l’ultimo volo di Rourke dalle corde del  ring. Ma se quello era un emozionante finale aperto, qui c’è il sapore di un  prevedibile coup de théatre. E gli specchi, ormai in frantumi, rimandano l’immagine di un regista forse anch’esso un po’ troppo narciso.

Sergio Di Giorgi

Come in The Wrestler, anche ne Il cigno nero Darren Aronofsky fa del corpo il soggetto per eccellenza della sua indagine. Quello di Randy “The Ram” Robinson, interpretato alla perfezione da un Mickey Rourke tormentato e scontroso, era un corpo imponente, gonfio, ferito: energico e possente ma insieme stremato e dolorante. Solo sul ring Randy trova il suo posto nel mondo, quel mondo che di lui ama unicamente il corpo che si sfianca e sanguina: il wrestler, prima ancora che l’uomo. Per questo egli può vivere solo in funzione del proprio corpo, perché solo attraverso di esso gli è concesso di relazionarsi con una realtà che altrimenti lo rifiuta, lo condanna, lo scaccia.

Natalie Portman, vincitrice dell’Oscar come Miglior attrice protagonista per la sua brillante interpretazione della fragile e angosciata Nina, esibisce invece sul palco un corpo etereo di ballerina, delicatissimo, quasi algido nella perfezione del suo movimento, e che pare sempre sul punto di “spezzarsi”, come se la sofferenza fosse, in ultimo, la minaccia segreta e costante sempre in agguato sulla bellezza di questa esile fisicità.

Che l’espressione stessa della corporeità dei due protagonisti (il wrestler e la ballerina) debba per forza passare attraverso il dolore è di fatto un punto che accomuna in maniera lampante le due pellicole. Ciò che invece le distanzia, sono le coordinate entro cui questa consumazione penosa del corpo ha luogo: realistiche e quotidiane in The Wrestler, oniriche e quasi fantascientifiche ne Il cigno nero. E’ per questo motivo che non si renderebbe giustizia all’ultimo film di Aronofsky qualora si pretendesse di metterlo a confronto con il precedente ponendoli entrambi sul medesimo piano: perché, sebbene essi condividano in una certa misura il soggetto (una sfida esistenziale che si compie anzitutto attraverso la fisicità), tuttavia non condividono la forma. E questa è una differenza profonda, che predetermina la scelta di due punti di partenza opposti e distanti. Da una parte infatti, nel registro del “realismo”, Randy Robinson ha ancora un mondo fuori dal ring con cui confrontarsi: la società in cui si sente inadeguato e fallito, e in cui gli è impossibile trovare una dimensione. Lo sguardo del regista abbraccia contemporaneamente ciò che Randy vede del mondo e il modo in cui il mondo guarda a lui.

Di contro, ne Il cigno nero, le convulse soggettive di Nina ci impediscono di immaginare un “fuori campo”: è come se il mondo, al di fuori delle cupe e grandi sale della scuola di danza e della claustrofobica casa della ragazza, non esistesse. Abbandonato uno sguardo “esterno” e oggettivo, il film si lancia in una febbrile corsa che coincide, passo dopo passo, con lo sguardo sempre più sconvolto della protagonista; molto di ciò che vediamo potrebbe essere frutto della sua mente, e il regista gioca in maniera esibita a confondere fantasia, immaginazione e realtà. Di conseguenza, se da un lato (in The Wrestler) allo spettatore viene offerto un racconto ancora solido che si sviluppa entro i limiti “empirici” del reale, dall’altro (ne Il cigno nero) si viene chiamati a scivolare nei meandri oscuri di un’allucinazione che man mano diviene sempre più spasmodica e travolgente. E’ un film, Il cigno nero, che comunica con lo spettatore soprattutto sul piano dei sensi, chiedendogli di abbandonarsi alla percezione e alle sensazioni. Se non si parte da questo presupposto resta difficile apprezzare la metamorfosi del corpo di Nina, che lotta per far emergere il proprio lato oscuro, quel “cingo nero” che si paleserà, letteralmente, quando una muta di piume scure inizierà a coprirle le braccia, mentre danza sul palco. Le venature horror che permeano l’intero film del resto non appaiono mai gratuite, ma sono funzionali a sviluppare un discorso sul corpo e la fisicità in termini, come già detto, più fantastici che realistici.

Il morboso e squilibrato rapporto madre-figlia, la riflessione sull’ebbrezza del successo e sull’abisso di rancori del fallimento, la fine dell’adolescenza come momento delicato e complesso, le rivalità senza fine nel mondo della danza, la relazione allieva-maestro traboccante di violenza psicologica e sensualità sono le altre tematiche che vengono sviscerate da Aronofsky con perizia e attenzione, messe in scena con precisione e acutezza in un’atmosfera sempre incredibilmente tesa e  satura di inquietudine. La storia di una giovane ballerina del New York City Ballet chiamata ad interpretare il ruolo della vita, quello di Odette/Odile ne Il Lago dei Cigni, diventa quindi anche un pretesto per intrecciare riflessioni diverse e miscelare i generi, strizzando l’occhio al thriller. Sotto la superficie del film, si agita insomma qualcosa di molto più profondo: una riflessione sulla ricerca della propria identità nascosta, o meglio, sulla necessità di ridefinire ciò che si conosce di noi stessi, attraverso una vera e propria metamorfosi che non può, intrinsecamente, essere esente dal dolore.

Arianna Pagliara


di Sergio Di Giorgi
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