Il grinta
Capacità di esplorare senza timori gli ampi territori del cinema, abilità nell’attraversare i generi evitando di scadere nell’ovvio. Il cinema inteso come “luogo dello stile”, uno stile mai conformista, ripetitivo e banale.
Joel e Ethan Coen navigano nell’oceano filmico da circa ventisette anni (1984 – Blood Simple) con la professionalità di chi conosce perfettamente le regole di questo linguaggio (nonché dell’industria) e proprio per questo le sa utilizzare in modo imprevedibile in un complesso sistema di opere, basato sulla sana concezione dell’innovazione continua.
Cosa tiene insieme, dunque, l’articolata filmografia dei Coen? Senza dubbio il rigore dello sguardo e la forza drammaturgica dei loro lavori. In tal senso, la loro poetica non è certo rintracciabile in una superficiale uniformità di contenuti quanto piuttosto in una cifra espressiva nella quale è proprio il cinema, in quanto forma artistica e di comunicazione stratificata, a divenire fulcro di un universo creativo mutante e non pronosticabile.
L’incursione che Joel e Ethan Coen hanno effettuato nel western è emblematica, chiave di lettura del loro “senso dell’immagine” e della volontà di narrare la sostanza profonda degli USA, contestualizzando tale elemento di volta in volta in contenitori diversi (nel caso specifico nel genere western, appunto). Incursione nel western, abbiamo detto. Non v’è dubbio però che Il Grinta è molto di più. Mettiamo da parte inutili paragoni con la versione filmica di Harry Hathaway del 1969 e con il testo letterario di riferimento firmato da Charles Portis e concentriamoci proprio sull’opera dei Coen.
L’aspetto sul quale hanno puntato i due fratelli del Minnesota è senza dubbio quello della ripulitura del genere dalla retorica nazionalistica e da quella speculare antinazionalistica. I Coen, poi, si allontanano in maniera chiara dal versante “crepuscolare” così come da quello che può far capo (stilisticamente) a Sergio Leone. Ne Il Grinta, Joel e Ethan Coen cercano una loro interpretazione del western e la trovano in maniera precisa ed efficace. La solidità del racconto si fonde perfettamente con una potente impostazione visiva, caratterizzata da un rigore registico di rara forza. Salvo che nella conclusione (per altro di assoluta misura) non c’è traccia in questo film di derive emotive. Tanto meno di vacue forme di esaltazione dell’eroismo individuale. I cineasti americani costruiscono un affresco tragico, barbarico, ambiguo e algido. Il loro sguardo appare lontano, distaccato, e dunque capace di convogliare la narrazione all’interno del vero e unico cuore del racconto: la costruzione di un sistema di ideali (gli Stati Uniti d’America) in un contesto naturale indifferente alle follie e agli istinti degli esseri umani. I personaggi della vicenda, così, assumono una dimensione metaforica e divengono veicoli comunicativi che non producono significati scontati. I soggetti che sostengono la vicenda si muovono e si comportano spinti più dall’ingenuità (che non vuol dire superficialità) delle loro psicologie che da idealizzazioni (posticcie) di tipo sociale, politico e religioso. Il west dei fratelli Coen è racchiuso nel dualismo filosofico caratterizzato da due realtà opposte: la sublime e agghiacciante bellezza della natura, indifferente alle azioni insulse degli individui, e la squallida umanità che inquina il territorio e che è portartrice di macroscopiche e devastanti contraddizioni.
Il Grinta si configura, dunque, più che come un’evoluzione del genere western come una sorta di saggio filmico sulle radici complesse di un fenomeno statuale per nulla facile da interpretare, a differenza di ciò che la cultura ufficiale e talune “scuole” socio-politiche di pensiero vogliono farci credere.
Maurizio G. De Bonis
La cifra stilistica propria dei fratelli Coen, inconfondibile e sempre suggestiva, si ritrova appieno in questo solido western che racconta la storia di una ragazzina testarda e coraggiosa, determinata a vendicare la morte del padre. Che il film sia ispirato al libro di Charles Portis, già portato sullo schermo nel 1969 da Henry Hathaway con John Wayne nel ruolo del protagonista, poco importa: i Coen se ne appropriano in maniera totalizzante, innestando nella materia classicamente western il loro sguardo “filosofico” teso tra ironia e amarezza e le loro fascinose derive surreali, che prendono forma in immagini potentemente espressive.
Quello dei Coen, attraverso e dentro i generi, di film in film, è infatti sempre stato uno sguardo in bilico sul confine sottile tra reale e surreale, uno sguardo volto cioè a carpire quel tanto di misterioso e labile che segretamente sta dentro alle cose, intento a rivelare la fragilità della linea di separazione tra il banale e l’assurdo in un mondo imperscrutabilmente dominato dal caso. A serious man finisce con una serratura inceppata e un gruppo di ragazzini fuori la porta in attesa dell’uragano che, nerissimo e minaccioso all’orizzonte, si avvicina repentinamente. Il Grande Lebowsky mette in scena una storia rocambolesca in cui l’input narrativo è un fortuito scambio di persona. E Il Grinta, in cui un’impostazione narrativa piuttosto classica lascerebbe supporre la visione di un reale “addomesticato” e assoggettato alle regole di una solida drammaturgia precostituita, si apre invece, in linea con le altre pellicole dei Coen, a una riflessione quanto mai fluida e disincantata sulla naturale imprevedibilità della vita. Questo sembra sottolineare soprattutto l’epilogo del film, funzionale a reinserire tutta la vicenda narrata – coesa e strutturata – in un tempo che invece è caotico e smembrato e, come afferma la voce fuoricampo della protagonista ormai adulta, in ultimo, “ci sfugge”, dopo averci lasciato per lo più in balia del caso.
Che ciò avvenga proprio in un western, genere che nasce col mito della frontiera americana, da una profonda e complessa necessità di legittimazione storica da parte di un popolo, è sintomatico della capacità dei registi di appropriarsi delle regole del genere e superarle, non per infrangerle, bensì per farle proprie, inserendole in un discorso personalissimo e di portata ben più ampia. Le dicotomie forti del western classico, già fecondamente demolite da Sergio Leone negli anni Sessanta, lasciano qui il posto a una rappresentazione che, se per certi versi si fa fiabesca e romanzata, per altri costituisce una denuncia lucida e aperta della profonda ambiguità del reale. La vita è mutevole e accetta la contraddizione: ecco perché il protagonista Rooster Cogburn, sceriffo e quindi uomo di legge, ci viene mostrato per la prima volta in un aula di tribunale, come imputato, accusato di omicidio. E’ un giustiziere, e insieme un criminale. Burbero e trasandato, con la voce roca e una benda sull’occhio, si beffa dei suoi accusatori sotto gli occhi incuriositi della giovane Mattie Ross, che vuole assoldarlo per dare la caccia all’uomo che le ha ucciso il padre, Tom Chaney.
Jeff Bridges è perfetto nei panni di Cogburn, eroe consumato e imperfetto, rissoso e grande bevitore. Affiancato da un ottimo Matt Damon, nel ruolo del presuntuoso texas ranger LaBoeuf, e insieme alla tenace e paziente Mattie, Cogburn si avventura in un territorio selvaggio e pericoloso sulle tracce di Chaney.
In un film che sfoggia una fotografia e un cromatismo curati fin quasi all’eccesso, lo spazio diviene il vero protagonista: la natura meravigliosa in cui i protagonisti combattono le loro personali battaglie, che di fronte a essa appaiono ben poca cosa, è descritta con rara solennità e con una profondità di sguardo che colpisce. Se la costruzione dei personaggi e dei loro rapporti appare perfettamente equilibrata, così come i toni e i ritmi narrativi sempre coerenti e funzionali, la rappresentazione del paesaggio e del modo in cui l’uomo si muove in esso è magistrale. E’ proprio questa rappresentazione che diviene il luogo espressivo per eccellenza della poetica dei Coen.
Arianna Pagliara
di Maurizio G. De Bonis e Arianna Pagliara