Il caso dell’infedele Klara

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infedele_klara_1L’ultimo film di Roberto Faenza, che vuole essere una meditazione amara sul sentimento della gelosia, ha il pregio di tentare una riflessione profonda sulla sostanza della passione amorosa e sulla sua essenza ultima, di provare cioè a indagare alla radice tutta la dolorosa contraddittorietà dei sentimenti. Ma l’intento, anche intrigante, da cui sembra muovere il regista non trova poi nel film il giusto modo di realizzarsi, poiché le premesse vengono disattese senza trovare un loro completo sviluppo: i personaggi, che in potenza potrebbero quasi incarnare, o quantomeno richiamare, delle “barthesiane” figure di un “discorso amoroso”, restano di fatto delle “bozze”, che suggeriscono e accennano, senza concretizzare e impersonare, dei corpi che patiscono – nel senso di pathos – la violenza dell’amore. E’ appunto di questo che soprattutto si sente la mancanza, del vibrare e del pulsare dei sentimenti, che sono, più che vissuti, esposti, teorizzati, illustrati quasi schematicamente dagli stessi protagonisti.
Il problema però non sembra risiedere neppure in uno scarto tra gli attori e i personaggi che questi sono chiamati ad interpretare. Claudio Santamaria, ovvero il protagonista Luca, un musicista italiano che vive a Praga, potrebbe essere perfettamente credibile nei panni di un uomo incapace di porre freno alla sua patologica gelosia, e Laura Chiatti non ha il volto sbagliato per incarnare il ruolo classico della donna che si fa oggetto del desiderio. Eppure qualcosa non funziona; la messa in scena di un sentimento che dovrebbe essere straziante e ossessivo resta fredda, programmata, incapace di coinvolgere fino in fondo lo spettatore. Iain Glen, che non appare qui per la prima volta nella filmografia di Faenza (interpretava Jung nel più riuscito Prendimi l’anima), mantiene intatto il suo fascino malinconico nel ruolo di Denis, un investigatore che, assoldato da Luca per pedinare la fidanzata Klara, sceglierà di lasciarsi incautamente sedurre dalla ragazza. Costrettosi nella parte di marito condiscendente all’interno di una “coppia aperta”, Denis fatica ad accettare le sue insoddisfazioni sentimentali, ed è preda di una silenziosa, crescente scontentezza. Si tratta di un personaggio che potrebbe farsi luogo deputato per una riflessione sottile e articolata sul controllo e sul dominio che, spesso inutilmente e dolorosamente, si tenta di avere sui sentimenti e sull’emotività. Ma anche in questo caso gli spunti restano tali, non vengono problematizzati e sviluppati in modo esaustivo, come se già la sceneggiatura tendesse, a priori, a semplificare un discorso che invece troverebbe sostanza e fondamento proprio nella complessità e nella sua adeguata narrazione. Più vivo e credibile è invece il personaggio di Nina (Kierston Wareing, protagonista dell’ultimo, apprezzato film di Ken Loach), collega di Denis e madre di due figli. Attratta, e ricambiata, dallo stesso Denis, Nina è però una donna accorta, realisticamente consapevole dei rischi che un sentimento che appare troppo incostante e vago porta inevitabilmente con sé.
Nel complesso sembra quasi che tanti dettagli e particolari che avrebbero completato i protagonisti e aggiunto colore e spessore alla storia siano stati sacrificati o cancellati per dare un senso di universalità, per raccontare cioè qualcosa che vuole prescindere, andare oltre le singole individualità dei personaggi: non un caso di gelosia – quella di Luca – ma la Gelosia; non una coppia libertaria – Denis e la moglie – ma la coppia aperta in senso lato; non una donna (in)fedele – Klara – ma la donna rispetto alla fedeltà. Ma accade così che, se si tende a sottrarre sfumature e a schematizzare contrasti, la storia anziché farsi universale si faccia semplicemente generica, e quindi poco efficace. Paradossalmente la costruzione della soggettività dei personaggi, che per forza di cose offrono visioni sempre parziali di una realtà, non impedisce affatto – nel cinema come nella letteratura – di dare luogo ad una identificazione empatica con questi personaggi, anzi forse la favorisce, poiché è proprio nella loro inimitabile specificità che certi personaggi si fanno incredibilmente verosimili, divenendo così portatori di qualcosa che eccede la loro dimensione personale e tende a farsi universale. L’operazione messa in atto dal film di Faenza sembra procedere invece in una direzione opposta: dall’universale al particolare. Ma la strada è forse eccessivamente ardua, e il risultato è un film che, nonostante i presupposti interessanti, si perde in una rappresentazione troppo teorica dei sentimenti.


di Arianna Pagliara
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