C’è ancora domani
Le recensioni di C'è ancora domani, di Paola Cortellesi, a cura di Boris Schumacher e Guido Reverdito.
La recensione
di Boris Schumacher
Tra poco meno di un mese, a fine novembre, compirà cinquant’anni. Un traguardo importante per Paola Cortellesi, divenuta negli anni una delle attrici più brave e conosciute del nostro cinema. Presentato in apertura della Festa del Cinema di Roma, C’è ancora domani è il suo riuscito e ispirato esordio dietro la macchina da presa in cui dimostra da subito di avere le idee chiare, riuscendo a colpire e sorprendere con scelte registiche interessanti, originali e fuori dal comune. Per Paola Cortellesi l’avventura nel mondo del cinema è iniziata nel 2000, ben 23 anni fa, col ruolo di Dalia nel film Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo e Massimo Venier. Nello stesso anno esce il videoclip del brano La descrizione di un attimo dei Tiromancino in cui recita accanto a Valerio Mastandrea. Nel suo film d’esordio alla regia, Cortellesi interpreta Delia, anziché Dalia, e recita nuovamente accanto a Mastandrea, con cui aveva lavorato di recente, nel 2020, in Figli diretto da Giuseppe Bonito ma scritto e sviluppato dal compianto Mattia Torre. La sceneggiatura di C’è ancora domani, firmata in prima persona dalla regista insieme ai fidati e sodali Furio Andreotti e Giulia Calenda, ha tutti gli ingredienti giusti per avvincere lo spettatore, rilanciando la storia di continuo con risvolti improvvisi e sviluppi narrativi inaspettati.
La storia è ambientata a Roma nel 1946, nel primissimo dopoguerra, nelle settimane e nei giorni precedenti al voto con cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra Repubblica e Monarchia, il primo suffragio universale del nostro paese che portò alle urne tredici milioni di donne. Delia non ha una vita semplice: oltre a curare casa, famiglia e prole svolge tre lavori diversi. Il marito Ivano, interpretato da Valerio Mastandrea in uno dei ruoli più negativi e sgradevoli della sua carriera, la umilia, la sottomette e soprattutto la mena, come dicono a Roma. Quotidianamente, a ogni minimo cambiamento d’umore.
C’è ancora domani è un’opera d’esordio ma al contempo sembra essere quella della maturità e della definitiva consacrazione artistica per Paola Cortellesi, che assembla e dirige un cast in stato di grazia e si ritaglia su misura il ruolo da protagonista, il migliore o quantomeno uno dei migliori della sua ormai lunga e poliedrica carriera. La neo regista ha il coraggio di osare nel farsi produrre un film in bianco e nero che si apre col formato ridotto in 4:3, con una bella scena introduttiva che cita Una giornata particolare di Ettore Scola, per poi aprirsi e allargarsi a tutto lo schermo. Cortellesi da una parte omaggia il Neorealismo, dall’altra guarda alla migliore commedia all’italiana, per poi rielaborare il tutto e dar vita a un film molto sentito e personale, ambientato nel secondo dopoguerra ma con una tematica tristemente attuale: la violenza sulle donne. È al nostro presente che guarda e si rivolge la regista, alla nostra società in cui le donne hanno sì acquisito il diritto al voto da quasi ottant’anni ma vengono ancora discriminate, maltrattate, picchiate e spesso uccise da uomini violenti e meschini che invece di amarle e proteggerle le considerano solo una loro proprietà.
Cortellesi non intende fare la morale o essere didascalica, sa come mantenere la lucidità senza farsi sopraffare e schiacciare dall’importanza e dall’urgenza dei temi trattati. Lo dimostra a più riprese nel corso del film, filmando con estro e fantasia una scena di violenza domestica che si tramuta in un balletto a due e dando vita a un finale inaspettato e imprevedibile in cui si dimostra abile ed esperta nel riuscire a ”ingannare” il pubblico, in modo da sorprenderlo e tenerlo incollato alla sedia fino ai titoli di coda. C’è ancora domani rappresenta una boccata d’aria fresca per il nostro cinema, quello d’intrattenimento popolare che mira e ha l’ambizione di rivolgersi e arrivare a tutti.
La recensione
di Guido Reverdito
Ormai è un dato di fatto: il 2023 sarà ricordato come l’anno in cui importanti attori del panorama nostrano hanno deciso di passare dietro la macchina da presa. Dopo Giuseppe Battiston, Kasia Smutniak, Margherita Buy e Claudio Bisio, con C’è di nuovo domani anche Paola Cortellesi ha fatto il grande passo.
Film d’apertura alla Festa del Cinema di Roma e forte degli importanti premi di pubblico e giurati ricevuti, questo dramma in costume con spolverate di commedia nella Roma del 1946 affronta di petto la questione del ruolo della donna nella società di casa nostra parlando di un passato che sembra perso nei recessi della memoria ma che di fatto è l’inizio di un lungo percorso di emancipazione durato decenni e messo a rischio dall’incapacità che ai giorni nostri troppi uomini sembrano mostrare nel non voler accettare che le cose non stiano più come ottant’anni fa.
Scritto a sei mani da Cortellesi con i tradizionali compagni di penna Giulia Calenda e Furio Andreotti (con cui l’attrice lavora da molti anni nella sua dimensione di sceneggiatrice), C’è ancora domani è il ritratto di una casalinga simbolo della condizione femminile degli anni del dopoguerra: succube del marito manesco che la gonfia di botte scaricando sul suo corpo inerme la propria frustrazione di maschio figlio di tradizioni machiste in vigore da secoli, la sua Delia è una madre di tre figli che di fatto è la sguattera di casa dove le tocca anche accudire il suocero scorbutico (a sua volta ancora più maschilista del figlio) cercando di raccattare qualche spicciolo con iniezioni fatte a domicilio, rammendi di biancheria per una merciaia o ancora ombrelli da assemblare a cottimo.
Girato in un bianco e nero molto carico che paga pegno al neorealismo rosa dei tardi anni ‘40 e forte di una strepitosa colonna sonora che alterna canzoni dell’epoca a musica italiana e rock dei giorni nostri (grandiosa l’idea di disinnescare la violenza bruta della sequenza in cui il marito massacra di botte Delia convertendola in una specie di paso doble dell’orrore sulle note di Nessuno di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti), questo folgorante esordio alla regia è il riflesso della multiforme personalità della sua poliedrica autrice.
Cortellesi, da brava imitatrice e cabarettista qual è, mostra di essere padrona assoluta degli spazi di scena senza mai la minima esitazione, regalando però a tutti i personaggi della sua (tragi)commedia umana lo spazio vitale necessario per diventare memorabili. Evitando però allo steso tempo che la figura michelangiolesca della sua Delia emargini chi ruota intorno a un personaggio tanto poderoso pur essendo una vittima sacrificale del tempo in cui vive.
Dal marito orco di un Valerio Mastandrea mai visto tanto trucido a un Vinicio Marchioni ex fidanzato ancora cotto che le offre la chance di emanciparsi da un destino di botte e sottomissione; dal suocero scorbutico e ipermaschilista di Giorgio Colangeli all’amica verduriera di Emanuela Fanelli (la sola capace di zittire il marito al banco del mercato). Per passare alla figlia Marcella che la mette di fronte al proprio destino di umiliata e offesa e ragiona come una ragazza dei giorni nostri, finendo coi due figli maschi che sono repliche in minore della brutalità sboccata del padre, destinati a riprodurre in futuro il modello di prevaricazione di genere appreso tra le mura domestiche.
Ma il suo è anche un film a tesi con scopi scopertamente didattici (già impliciti nel titolo stesso) che guardano alle donne di oggi e soprattutto di domani. Non a caso il magnifico finale aperto coincide col 3 giugno 1946, giorno in cui le donne italiane votarono per la prima volta nelle cruciali elezioni che portarono il paese a diventare una repubblica: le conquiste femminili iniziate quel giorno – quando a tutte fu comunque imposto di togliersi il rossetto dalle labbra per non macchiare la scheda elettorale – sono il prodotto di un lungo viaggio costato fatica e sofferenze a più di una generazione. Ma che in un mondo in cui tutto è precario e fragile rischiano di veder tornare indietro di decenni gli orologi della civiltà, permettendo agli eredi di quei sopraffattori del passato (i suprematisti testosteronici del “si è sempre fatto così”) di soffocare nella cieca violenza domestica decenni di emancipazione e di lotte per la parità di genere.
di Boris Schumacher e Guido Reverdito