La recensione di Amichemai, di Maurizio Nichetti, a cura di Marco Lombardi

La recensione di Amichemai, di Maurizio Nichetti, a cura di Marco Lombardi.

Dopo 23 anni di silenzio, anni in cui si è dedicato alla formazione e ai festival perché “nel nuovo modo di fare cinema non mi ci ritrovavo più”, Maurizio Nichetti torna a girare un film, e lo fa ripartendo da quel consueto mix di commedia e surrealtà che era stata la sua principale cifra stilistica. Anche se in AmicheMai c’è la Angela Finocchiaro dei suoi inizi, un’attrice in ottima forma che duetta a meraviglia con l’altrettanto brava Serra Yilmaz, l’alterità della poetica di Nichetti non emerge dal suo trasformarsi in un personaggio animato come in Volere volare, bensì dall’alternanza della narrazione con dei simil backstage che due content creator girano col cellulare, e vengono proposti dentro la cornice di uno smartphone che spunta qua e là, in stile pop up, all’interno dell’inquadratura.

Sulle prime potrebbero sembrare frutto del bisogno di mostrarsi al passo con le tecnologie, ma in uno di questi pop up Nichetti, che non sopporta le riprese coi droni, ne distrugge uno, così rivendicando l’appartenenza ideologica a un altro periodo storico, poi rimarcata da una battuta sul digitale (Nichetti dice, ironicamente, che con il digitale i film si montano e si fanno da soli, dopo averli girati): e allora, cui prodest? visto che detta alternanza, soprattutto all’inizio, spezza la tensione narrativa, e non poco. Giova all’ironia, perché nei backstage viene fuori che il film non si può più realizzare, come da programma, per colpa di un simbolico disastro ambientale che, al netto di qualche (evitabile) passaggio un po’ didascalico, consente alla narrazione di esorcizzare la lunga lontananza di Nichetti dai set, raccontandola per altra via (della serie “ma che sfiga, succede proprio a chi non faceva cinema da una vita”).

Forse c’e un po’ di meccanicità in questo continuo gioco di alternanza fra la realtà e la finzione, e anche un pizzico di bisogno di stupire a tutti i costi, ma è compensato da un approccio leggero, rispetto al “rumore” prodotto dalla maggioranza delle commedie italiane contemporanee, che sa piacevolmente di vintage. Quello che ci pare proprio non funzionare è invece il titolo, che pure allude a una “semplicità” che poi non è il film: nonostante la Finocchiaro (cioè la padrona di casa) e la Yilmaz (cioè la badante del padre) all’inizio proprio non si sopportino, il viaggio verso la Turchia, diretto a trasportare una “sorprendente” testiera del letto che la Yilmaz ha ricevuto in eredità, finisce per avvicinarle profondamente.


di Marco Lombardi
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