La retrospettiva su Wojciech J. Has al 43mo Bergamo Film Meeting

La retrospettiva su Wojciech J. Has al 43mo Bergamo Film Meeting.

La storia del cinema è direttamente proporzionale alla memoria degli attuali spettatori e alla circolazione delle opere, ormai fuori controllo o caotica, come in una fantasia spazio-temporale dei classici del polacco Wojciech Jerzy Has. In pratica avanzando o retrocedendo all’occorrenza nel tempo con radici di lunghezza variabili, determinate da anniversari, necrologi, ricorrenze. Di quella dei cento anni dalla nascita del grande visionario Has, figura di spicco ma oggigiorno a rischio di cadere nell’oblio, si fa dunque carico il 43º Bergamo film Meeting, dall’8 al 16 marzo prossimi, con una retrospettiva doverosa combinata a quelle contestuali dedicate a Otar Ioseliani, Christian Petzold e Alice Nellis.

Il caso Has è quindi singolare, curioso oltretutto nell’epoca dei social onnivori di date pregresse, vintage, riscoperte indifferenziate. Come è possibile che un autore così seminale sia quasi scomparso dai radar che intanto, con cadenza oraria e quotidiana, non si fanno mancare proprio niente? Questo tassello centrale del puzzle, scomparso dall’orizzonte del gusto corrente, peraltro serve a non perdere di vista l’insieme: il primo indizio per individuarne il solco profondo giunge da Luis Buñuel che adorava il suo film più noto, Il manoscritto trovato a Saragozza, come lo stesso David Lynch recentemente scomparso e perciò celebrato con maggiore presa compulsiva, poiché molto in debito con quella poetica irriducibile attraversata da viaggiatori dispersi per sentieri onirici incontrollabili. Ma parlare di maestri a monte e a valle per un cineasta della portata internazionale e trasversale a livello generazionale quale Has è stato e continua sottotraccia a essere significa da un lato comprendere nel novero tutto il cinema di Terry Gilliam, infervorato dalla potenza espressiva de La clessidra, tra espressionismo e surrealismo, senza margini tracciati tali da poter procedere con unità di misura a portata di mano; dall’altro ragionare su epoche ormai remote in cui preponderante, materica e non digitale agiva la forza interiore di rendere labile il confine tra realtà e sogno, o preferibilmente incubo, guerra e simboli, spettri e mondi fatiscenti, macerie e spazi sanitari asfittici, vetture ferroviarie simili a sanatori e viceversa, specchi e sagome discinte, animazioni incastonate nell’immagine fotografica e paesaggi dell’anima.

Non esiste una categoria storiografica, estetica o ideologica circoscritta per classificare l’opera omnia di Has che torna a splendere sugli schermi di Bergamo. Semmai la constatazione di fondo relativa a un dialogo circolare che rende inseparabile la sua arte, cinematografica solo per ragioni contingenti di messa in campo della vasta materia in qualche modo rappresentata, da quella negli stessi anni sviluppata da Ingmar Bergman, Federico Fellini o Andrej Tarkovskij. Inutile quindi con l’autore di una filmografia di cui spesso si privilegiano solo Il manoscritto trovato a Saragozza e La clessidra ragionare per categorie o stabilire un prima o dopo tra titoli che trascendono il reale o che trattano il fantastico realisticamente. Ogni riquadro che compone la tela più ampia concorre a completarla e a confermare l’assioma, poi recepito da Peter Handke e Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino che «le storie esistono soltanto nelle storie».

Quando queste “storie” non duravano soltanto ventiquattro ore “sussistevano” come storia alta del cinema: era giocoforza che si accavallassero sul grande schermo con la vertigine in agguato e pronta a prendere il sopravvento. Inevitabile quindi considerare i suoi film assai più autentici dell’esistente, specialmente nell’epoca della menzogna bellica globale. E grazie anche a quella stravagante logica del disadattamento letterario sempre perseguito, a dispetto delle critiche, che sempre ne pervade la vena per immagini in movimento dove è impossibile attribuire il concetto transitorio di contemporaneo a ciò che invece appartiene per diritto imperituro al campo, in tutti i sensi, del moderno.


di Anton Giulio Mancino
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