The Quiet Son
La recensione di The Quiet Sono, di Delphine e Muriel Coulin, a cura di Juri Saitta.
Pierre è un operaio di mezza età che cresce da solo due figli post adolescenti, Fus e Louis. Mentre quest’ultimo è un ottimo studente che sta per iscriversi alla Sorbona di Parigi, il secondo non ha completato gli studi e sta inoltre frequentando un gruppo violento di estrema destra facendo per questo preoccupare la famiglia.
The Quiet Son di Delphine e Muriel Coulin non è il primo film che riflette sulla crescita della destra radicale in Europa, basti pensare, restando in Francia, al lavoro di Lucas Belvaux A casa nostra, incentrato sulle manovre politiche di un partito tipo Front National. Piuttosto, la particolarità del titolo delle sorelle Coulin risiede nell’approccio intimista e psicologico, attento soprattutto ai rapporti tra i personaggi.
Infatti, il punto di forza dell’opera non sta tanto nella descrizione stereotipata del gruppo neofascista o nel racconto un po’ schematico dello scontro tra nazionalisti e progressisti, quanto nel modo delicato con cui vengono mostrate le relazioni tra i protagonisti, tra affetto e vecchie ferite (la morte della madre), invidia più o meno sottaciuta (quella di Fus verso il fratello) e preoccupazioni crescenti, in particolare quelle di Pierre, che si sente impotente di fronte alle azioni di un figlio che non riconosce più e che ha cresciuto con valori opposti.
Una serie di sentimenti e di rapporti seguiti da una regia semplice e lineare, attenta però a sottolineare alcuni dettagli rivelatori, come il gesto affettuoso di Fus che toglie le scarpe al padre mentre questi si è addormentato vestito o quello del genitore che accorcia il tavolo allungabile della cucina quando rimane solo.
Ed è proprio grazie alla descrizione dei rapporti familiari che il film riesce a riflettere anche su questioni più pubbliche e sociali, come dimostra la citata invidia di Fus verso il successo del fratello, emblema delle frustrazioni di quella parte di popolazione che si sente esclusa e senza futuro, e che per questo si rifugia in idee razziste e xenofobe.
Il tutto sorretto anche dalle buone interpretazioni dei protagonisti, in particolar modo quella di Vincent Lindon, che per questo film ha vinto la Coppa Volpi a Venezia 81.
di Juri Saitta