Anywhere Anytime
La recensione di Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, a cura di Carmen Albergo.
Anywhere Anytime è l’opera prima del regista Milad Tangshir, torinese di origini iraniane, scritto in collaborazione con Daniele Gaglianone e Andrea Giaime Alonge, unico film italiano in concorso alla 39ma Settimana della Critica e premiato per la miglior produzione indipendente (Vivo Film e Young Film) per aver rappresentato “Nel panorama del cinema italiano di oggi, un esempio virtuoso di unione tra l’urgenza di raccontare una storia contemporanea ( …) creatività e sostenibilità produttiva (…) ”.
Ovunque e sempre “un rider nero è un rider nero”. Uno è uguale a tanti altri, senza neppure distinzione di un nome reale. Mario/a, per un uomo/donna di origini straniere, in questo caso africane, è un nome reale o pragmatica comodità linguistica? Anywhere Anytime, il titolo, non è dunque solo lo slogan di un delivery in bicicletta, ma quasi una sorta di stigma, perché non coincide solo con il lavoro svolto, ripiego estremo per gli italiani, prima occasione di guadagno per gli stranieri (a tal proposito si veda il sarcastico E noi come stronzi rimanemmo a guardare per la regia di Pif) ma determina una condizione socio-esistenziale di sopravvivenza.
“Qui non funziona così!”, si sottintende sulla fiducia, così sentenzia il biciclettaio torinese alla preghiera di un pagamento posticipato per una nuova bici, dopo il furto della prima. Contrariamente alla fiducia di poter contare su un compagno in condizioni di vita o di morte reciproca, tensione che lega i ragazzi protagonisti, Issa e Mario, immigrati sopravvissuti al deserto, alle torture in Libia, alla traversata in mare, o potremmo anche dire, alla trama, purtroppo non di invenzione, di Io Capitano di Mattero Garrone.
Quanto somiglia fisiognomicamente l’interprete Ibrahima Sambou, che presta il volto al personaggio di Issa, a Seydou attore – personaggio di Io capitano? Ed è praticamente impossibile non porre in dialogano, rifrazioni di un unico racconto globale, le opere Io Capitano, Anywhere Anytime e Seydou. Il sogno non ha colore di Simone Aleandri, presentato in contemporanea alle Giornate degli autori 2024, che ci svela la reale vita di Seydou dopo il grande debutto cinematografico. E quanto a ritroso, nella memoria di queste sezioni collaterali della Mostra del cinema di Venezia, possono non accavallarsi prepotentemente le immagini di La bas. Educazione criminale di Guido Lombardi, premio opera prima a Venezia 2011, nonchè per forza di cose La mia Classe di Daniele Gaglianone, qui co-autore con Tangshir? La mappatura filmografica potrebbe ampliarsi ulteriormente, se non si fosse costretti a risalire la punta dell’icebrg, per dirimere la prima e scontata associazione con il caposaldo neorealista, Ladri di biciclette, di De Sica del 1948.
Di questo archetipo, Anywhere Anytime, sembra quasi ricalcare in falsariga l’intreccio, svuotandolo però del riconoscimento di una morale collettiva popolare, che resterebbe ancora l’unica discrimine di scelta e salvezza. Il comandamento massimo di non fare ad altri ciò che non vorremmo fatto a noi stessi, non tanto per una, pur declamata, inalienabile dignità umana, ma semplicemente, perchè in quel frangente si condivide o solo comprende la medesima guerra tra poveri, umili(ati) d’animo.
Nella finzione Issa, da sei anni a Torino, è ancora clandestino e si barcamena tra lavori e alloggi di fortuna, può però contare su Mario, compagno fraterno cui lo legano le comuni origini e il miracolo dello sbarco in Italia, ma ancor più fortunato, perchè regolare impiegato in un ristorante e apparentemente più acuto e pragmatico di Issa nella risoluzione di questioni ormai di prassi per un immigrato: basta un Iphon, un account generico, uno zaino termico e ovviamente una bicicletta, che sin da subito prescrive di non lasciare incustodita. Tuttavia è appunto nella disputa tra il libero arbitrio e la sorte, che la vita mescola le carte sul tavolo dell’atavica partita tra bene e male. Nel suo realismo di tempi quasi tutti utili alla diegesi, pur non neorealistici propriamente detti nel dipanarsi degli accadimenti, che coprono un week end, Anywhere Anytime sa tenere alta la tensione ed esplodere in un climax mozzafiato con connesso colpo di scena, concedendosi anche vitali sogni ad occhi aperti.
Nella sua opera prima, Milad Tangshir mostra già tutta la padronanza della costruzione di una visione estetico – linguistica d’autore, che si materializza di certo nella gestione dei colori ( molto bella nella sequenza iniziale la triade diffusa verde/bianco/rosso, che insieme alla psicologia simbolica di sopraffazione e ingenuità, rimanda al tricolore nazionale per chi vi cerca asilo) ma soprattutto sotto due aspetti portanti: da una lato, nella direzione radicale della colonna musicale – da musicista quale è – che trova nella ripetuta recisione netta della melodia, l’urto con la realtà; dall’altro, nella percezione degli spazi urbani, tutta giocata su traiettorie e strettoie, cui fanno contrappunto i contemplativi primissimi piani di Issa.
Il suo abisso di solitudine e rassegnazione che buca lo schermo, interrogandoci.
Costretto dalla clandestinità prima e successivamente dalla impellenza di recuperare la bicicletta rubatagli, Issa girovaga, svicola e fugge per le strade trafficate d’auto e per i mercati e piazze affollati di gente e roba accatastata ad ogni angolo. La macchina da presa con lui, ma non si tratta mai di un pedinamento in soggettiva, anzi in un modo che ricorda certi autonomi movimenti di camera di Antonioni (Tangshir ha altrove dichiarato di essere cresciuto nel mito dei grandi cineasti italiani) abbandona questo tallonamento, addirittura il suo controcampo, per distaccarsi da Issa, per anticiparne l’orientamento spaziale o morale, mettendolo fuori campo nella sua intima menzogna. Gli autori seguono la sua parabola, ma non vi fanno coincidere il loro sguardo, lasciando il protagonista nel suo libero arbitrio di tirare e spezzare la corda dell’onestà. Le strade di Torino sono gabbie a cielo aperto, reticoli claustrofobici in una prospettiva metaforica, che non incornicia il personaggio nella composizione, ma lo ingoia in una mimesi salvifica (l’agglomerato di bancarelle al mercato ortofrutticolo per es.) sino a braccarlo, paralizzarlo come nell’emblematica scena dello sgomento nell’isola di semafori tutti rossi, durante il serrato inseguimento del ladro. Di contro il mare dell’epilogo, approdo di fantasmi. Allucinazione tormentata che ha soppiantato il sogno (magari di diventare un calciatore come Seydou, che nel documentario autobiografico si allena sulla spiaggia di Fregene e incontra i campioni stranieri di casa in Italia) di certo, almeno, di una vita al sicuro in una nuova comunità di appartenenza, quella che Mario alter ego di Issa, si è visto strappare via perché “un rider nero è un rider nero”. Uguale a tanti altri, senza neppure distinzione di un nome reale, anywhere anytime.
di Carmen Albergo