My Everything

La recensione di My Everything, di Anne-Sophie Bailly, a cura di Guido Reverdito.

Primo lungometraggio della sceneggiatrice/regista Anne-Sophie Bailly, My Everything è la storia di una donna di mezza età che deve sostenere il figlio disabile mentre diventa padre. Personaggio complesso e sfaccettato che ha il volto e le fattezze della straordinaria Laure Calamy, già premiata come migliore attrice nella sezione Orizzonti di Venezia 2021 (e che in molti hanno ammirato nella versione originale francese del poi divenuto franchising Chiami il mio agente) per il ruolo della protagonista di Full Time – Al cento per cento, angosciante ritratto di una madre single che cercava di sopravvivere nella giungla del mondo moderno barcamenandosi tra i doveri genitoriali e una routine lavorativa ai limiti dell’infernale. Due vicende, quelle narrate in My Everything e in Full Time – Al cento per cento così insolitamente contigue a livello narrativo da farle sembrare parte di un unico universo cinematografico votato a raccontare quanto sia difficile essere donne e madri in una società che tritura chi non sta al passo ed emargina chi non si allinea agli standard delle masse.

La quarantenne Mona (questo il nome della protagonista) ha una vita che ruota quasi in maniera integrale intorno al figlio trentenne Joël, affetto da un’importante disabilità mentale e interpretato da Charles Peccia Galletto, giovane attore a sua volta disabile. Ma quando questi si innamora di Océane, una collega che come lui lavora in un laboratorio specializzato per persone portatrici di handicap cognitivi (anche lei affetta da una forma di analoga disabilità e, come nel caso di Joël, a sua volta intrepretata da una giovane attrice disabile), l’apparente equilibro che l’amore sbocciato sembra aver creato si sgretola in un battito di ciglia nel momento in cui si scopre che la ragazza aspetta un bambino.

Mentre i due innamorati sono al settimo cielo, i genitori di Océane la prendono malissimo. E quindi tocca a Mona, genitore single di lunga data, gestire da sola la spinosa faccenda, incerta tra l’assecondare il corso della natura e il timore che i due ragazzi non siano in grado di crescere un figlio insieme avendo essi stessi bisogno di attenzioni e cure quotidiane.

L’idea centrale del film – ovvero la genitorialità di una coppia i cui componenti sono ugualmente affetti da disabilità – è vista esclusivamente dal punto di vista di Mona, la quale interpreta il tutto alla stregua di un problema che deve essere in qualche modo risolto, come ogni altro aspetto della sua vita dedita totalmente alle esigenze del figlio. Il che in parte non rende un buon servizio alla complessità generale della questione (e cioè il diritto dei genitori di orientare le scelte di figli adulti, quand’anche questi siano nella condizione di non essere del tutto autonomi nel prenderle), e allo stesso tempo mette in secondo piano i due giovani innamorati, finendo col ridurre un problema spinoso di portata nazionale a un’ulteriore fonte di stress, frustrazione, rabbia e disperazione per la protagonista.

Ma anche una volta messa in luce questa parziale distorsione di prospettive, My Everything resta un film coraggioso e necessario per il tema spinoso che ha il fegato di affrontare e per la capacità che ha di regalare alla magnifica Calamy l’opportunità di confermare una volta di più – se mai ce ne fosse stato bisogno – di essere una delle più dotate attrici transalpine della sua generazione.


di Guido Reverdito
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