Bestiari, erbari, lapidari

La recensione di Bestiari, erbari, lapidari, di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

Bestiari, erbari, lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti,è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:

«D’Anolfi e  Parenti tornano con un film monumentale in tre capitoli, che racconta come sempre luoghi di produzione e persone al lavoro: filmando gesti, parole e movimenti i registi invitano lo spettatore a riflettere sulla sua posizione nel mondo e a rivalutare il punto di vista da cui ha sempre visto le cose. Un’opera enciclopedica e immersiva, un film-saggi che ha il coraggio di costruire un discorso filosofico e politico argomentando con la realtà. Un film oltre l’uomo e su come l’uomo guarda. Un film cruciale».

La recensione
di Sergio Sozzo

Uno dei frammenti di repertorio più potenti di Bestiari, il primo dei tre capitoli in cui è suddiviso l’ultimo mastodontico lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, vede una battuta di caccia alla zebra da parte di un gruppo di occidentali per la prima volta capaci di vedere – e filmare – dal vivo questi animali: non appena viene immobilizzata la bestia, la prima cosa che viene in mente di fare al cacciatore/conquistatore è di cercare di cavalcarla come fosse un ronzino nel West, annettendo così in un solo istante l’immagine del colonizzatore che sottomette la creatura selvaggia a quella del cowboy che regna sulla frontiera, indicazione di un immaginario cinematografico che diventa, già in questo footage muto dei primi del Novecento, l’unico codice attraverso il quale gerarchizzare la realtà davanti ai nostri occhi.

Ecco, il nuovo film di D’Anolfi e Parenti porta al livello successivo la capacità dei due autori di costruire macchine che si auto-enunciano, veri e propri critofilm che esplicitano attraverso il proprio stesso dispositivo le loro chiavi di lettura – in questo caso, il livello di riflessione sul potere del cinema è costantemente rivelato dalle parole di Sophia Gräfe e Francesco Pitassio che fanno da contrappunto alle immagini, così come nell’episodio successivo, Erbari, l’audio di una conferenza sull’antropocene sosterrà l’impianto osservazionale nell’Orto Botanico di Padova, il primo orto botanico universitario mai realizzato al mondo. Quella che sarebbe facile scambiare come volontà di “far passare il messaggio” evitando il “pericolo” delle ellissi di opere precedenti come il magnifico Spira Mirabilis, è in realtà una spinta che viene da lontano, quella della ricerca di un testo che possa porsi in parallelo al gioco di montaggio, e quasi farsi evocazione di immagini altre, non ancora filmate o non presenti sullo schermo, come i racconti orali dei Lakota proprio in Spira Mirabilis, o come la favola sui sogni degli animali che puntella tutto Bestiari.

Tutto il film, d’altronde, sembra una storia per bambini, un’enciclopedia sì, ma per l’infanzia, anche quando mostra vivisezioni, guerre e olocausti: ci sono gli animali parlanti, le piante immortali, le pietre magiche – come se lo sguardo di D’Anolfi e Parenti avesse deciso di inseguire ancora più a fondo quelle strutture arcaiche, quelle narrazioni primordiali e quasi bibliche (una Genesi ciclica, insomma) che trasformavano gli scavi per la metro di Milano di Blu già in un film di fantascienza, e insieme in un corto da cinema delle origini.

E allora anche nel pianeta verde di Erbari spunta una storia da raccontare, il diario di un soldato aspirante botanico che si mette a raccogliere piante in trincea sotto le bombe – e pare di rivedere gli appunti su carta del precedente Una giornata nell’archivio Piero Bottoni. Tra le carte degli archivi ripiomba d’altronde il capitolo finale del trittico, Lapidari, che ancora una volta intreccia mille storie possibili di presunti facinorosi, comunisti e anarchici i cui dossier di sorveglianza sono conservati tra gli scaffali dell’Archivio Centrale dello Stato: nel salto concettuale più vertiginoso e fertile dell’intera opera, questi fascicoli si fanno immagine di palazzi bombardati, macerie di guerra, strade diroccate – il cemento sopravvive più o meno degli alberi centenari? Se è vero, come si dice in Erbari, che l’essere umano è aspetto infinitesimale nella storia di questo pianeta e di questo ecosistema, è comunque stato in grado di perpetuare genocidi, conflitti bellici, esecuzioni di massa: cosa ci resta allora da piantare se non pietre d’inciampo che si sostituiscono ai semi degli erbari, marciapiedi che sono il nostro unico terreno come i cocci del Monte Stella, il suono di uno scalpello che incide nomi sulla placca nel silenzio, come le incisioni sugli animali filmate sin dalla notte dei tempi filmici…

Ecco, in quei colpi sordi che rimbombano nel Laboratorio delle Pietre d’Inciampo di Berlino, mentre l’artigiano lavora alle piccole steli da impiantare su strada, c’è tutto il paesaggio sensoriale del cinema di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, la visitazione costante e ostinata, quasi allucinatoria, di una dimensione in perenne divenire al di là della superficie delle immagini, ma già percepibile se si presta attenzione nelle vibrazioni del terreno che calpestiamo durante il nostro tempo di vita sulla Terra.


di Sergio Sozzo
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