Giuseppe Cederna torna sull’isola di Mediterraneo

L'attore Giuseppe Cederna è tornato sull’isola dove ha girato Mediterraneo per presentare il film e rivivere le sue emozioni al festival Beyond Borders.

Uno degli eventi più attesi dell’ottava edizione di Beyond Borders è stato il ritorno di Mediterraneo (1991) nell’isola in cui è stato girato, Kastellorizo, nel film chiamata con il suo nome greco, Megisti. Una proiezione particolarmente sentita perché Mediterraneo ha fatto conoscere la bellezza di questo luogo in tutto il mondo, soprattutto dopo aver vinto l’Oscar nel 1992.
Con la grazia solare della fotografia di Italo Petriccione e la scoppiettante sceneggiatura di Enzo Monteleone (liberamente ispirata al romanzo Sagapò di Renzo Biason), Mediterraneo ha al suo centro i temi prediletti del cinema di Gabriele Salvatores: la fuga e l’utopia. Così, nessun posto meglio di Kastellorizo poteva accogliere questa storia, con le sue acque blu e le colline assolate, porto ideale di ogni sogno.

Il ritorno al passato della guerra seconda mondiale finisce per essere una variazione sul tema dei film anni Novanta di Salvatores: un gruppo di amici in fuga dal grigiore e le responsabilità della vita quotidiana. Un film generazionale, si è detto, per chi in quegli anni si è trovato estraneo all’impegno politico e ha cercato nuove utopie escapiste.

La sconfitta di uno dei protagonisti, che torna sull’isola, alla fine di Mediterraneo, è la delusione indotta da una società che fa sembrare i sognatori dei reduci. Kastellorizo è lo spazio esotico, il luogo metaforicamente isolato alla fine del viaggio, in cui cercare di ricostruire un paradiso affettivo, sentimentale, erotico, fatto di spirito cameratesco e goliardico. Un modo di eludere la fine dell’innocenza, che si può sempre recuperare in un paradiso che appare perduto e ritrovato.

Ad accompagnare Mediterraneo a Kastellorizo, uno dei suoi protagonisti: Giuseppe Cederna. Presentando l’opera, ha raccontato non solo aneddoti relativi al film, ma il sentimento del tempo nel corto circuito tra l’immagine di sé eternata dal cinema e i cambiamenti del corpo e dell’anima che la persona e l’attore subiscono. Con molti riferimenti alla mitologia greca, da Ulisse e la promessa d’immortalità della ninfa Calipso a Crono che divora i suoi figli, il cinema e il tempo hanno trovato nelle parole di Giuseppe Cederna un delizioso connubio che ha affascinato la platea internazionale di Beyond Borders, un festival al quale i due direttori, Irini Sarioglou e Michel Noll, trasmettono tutta la loro passione e competenza.

Mai sazi di ascoltarlo, abbiamo intervistato in esclusiva l’attore sui temi del ritorno di Mediterraneo a Kastellorizo.

Mediterraneo è un piccolo film girato su una piccola isola. Durante le riprese avevate idea di quanto sarebbe stato importante per gli spettatori, fino all’Oscar?

Non ne avevamo davvero alcuna idea. Nessuno di noi era famoso, tranne un po’ Diego Abatantuono. Facevamo un film sulla guerra, ma senza sequenze di combattimento e avevamo un budget minuscolo. Mi ricordo che ogni settimana il produttore voleva tagliare una scena perché non c’erano i mezzi per girarla. In Mediterraneo non ci credeva nessuno. Avevamo, però, dei ruoli bellissimi e, rivedendo il film qui con il pubblico, ho capito perché questo spettacolo è ancora vivo: perché i personaggi sono seri, ma, insieme, leggeri, sono profondi e veri. Tutti incarnano, anche nel fisico, dei caratteri tipicamente italiani, quell’Italia giovane e povera che c’era allora. Enzo Monteleone è stato bravissimo nella scrittura e Gabriele Salvatores a tirar fuori il meglio di noi. Eravamo giovani, senza ego, non eravamo gonfiati dal nostro nome, che è il pericolo principale di qualsiasi lavoro che può portarti al successo.

Quanto, dal tuo punto di vista, Mediterraneo ha a che fare con stereotipi italiani o con la verità storica? Che sensazione avevate, in questo senso, mentre giravate e poi a film visto finito?

Ho sempre combattuto quest’idea dello stereotipo italiano intorno a Mediterraneo, perché, per me, se ci sono dei personaggi non stereotipati sono proprio questi. Gli italiani erano e sono così. Mediterraneo è un film sulle emozioni, in cui si leggono poesie, in cui ci si innamora, in cui si ha paura, in cui si gioca: tutte le cose migliori degli italiani sono in Mediterraneo. Si fa una pernacchia, si scherza, si sceglie come parola d’ordine «pizza margherita» e si finisce con il girare, con leggerezza, un piccolo film contro la guerra. Per cui, se sono questi gli stereotipi, allora viva gli stereotipi italiani. La storia di Mediterraneo è quella di un gruppo di giovanissimi soldati mandati in un posto che non conta niente per fare una cosa che non ha senso. Questo è l’assunto. Non sono in una pericolosa zona di guerra dove hanno una missione per salvare la patria. Dovrebbero essere una pattuglia di collegamento in una piccola e lontanissima isola, ma perdono proprio il collegamento. Prendi questa base di partenza e quello che succede è che il vento, la Grecia, il Mediterraneo, li trasforma in persone che vivono in pace. La guerra si sfarina nelle loro menti. Mediterraneo non vuole essere un film sulla guerra degli italiani in Grecia, non ha le pretese del film storico, è una pellicola su vari tipi umani che incontrano nel Mediterraneo il loro destino. Qui a Beyond Borders omaggiano me, ma Mediterraneo è un film corale e sono felice, quando lo vedo, di sentire di essere stato parte di questa squadra.

Il tuo personaggio è l’unico che fa una scelta radicale rispetto al proprio passato.

Capisco che il mio personaggio abbia colpito più profondamente, perché è disposto a cambiare la propria vita, a vivere su una piccola isola, un luogo lontano. Questo ha segnato l’immaginario di molte persone, non solo in Italia, dove il film ebbe un grande successo, ma anche in Grecia. Quando hanno visto il film, alcuni ragazzi hanno capito quanto fosse importante la loro cultura, l’amore per il luogo dov’erano. Il mio sogno in Mediterraneo è veramente diventato la loro vita. Ho incontrato alcune di queste persone, adesso gestiscono delle attività anche su quest’isola dei loro padri. Hanno deciso, grazie a questo film, di tornare lì e sentirla come il loro destino.

Che posto credi abbia Mediterraneo nella storia del cinema italiano?

Ha il posto che si merita. Quando nasce un’opera come Mediterraneo, non si può parlare di film bello o brutto, ma di una specie di miracolo. Mediterraneo è ancora vivo nel cuore di centinaia di migliaia di persone e si rinnova ogni volta. Ci sono sicuramente film fatti con più mezzi, forse anche meglio riusciti, più artistici, ma pochi sono amati quanto Mediterraneo. In Italia, l’unico film che suscita sentimenti simili è Nuovo cinema Paradiso. Opere che hanno in sé un’armonia che solo certi miracoli raccolgono.

Ti ho visto di nuovo aggirarti davanti la macchina da presa per le vie di Kastellorizo. Un nuovo progetto?

Un anno e mezzo fa ricevo una telefonata da una regista israeliana, Danae Elon, che vive a Montréal. Ci eravamo conosciuti trent’anni fa a Roma, dove aveva studiato e vissuto una parte della sua vita. Lei aveva scoperto che, come il mio personaggio nel film di Gabriele Salvatores, ero tornato più e più volte su quei luoghi e che la mia biografia era così legata al Mediterraneo e a Kastellorizo, che voleva approfondire un’idea: se fosse possibile raccontare una storia che avesse l’isola come protagonista, secondo il tema, molto classico, dei ritorni. Pensa alla stessa Odissea, per scomodare grandi modelli. Kastellorizo, il Mediterraneo, Mediterraneo,veramente sono stati per me un luogo umano importante, non solo un film che ho fatto in un posto. Ho cominciato a mettere insieme dei monologhi che ho scritto sull’isola e ci siamo visti a Kastellorizo, con un piccolo gruppo di studio dell’università di Tel Aviv, guidato dal professor Uri Cohen, che ha fatto una preparazione con materiali dall’Odissea, l’Eneide, Eschilo, Euripide, Kavafis e altri autori su cui abbiamo discusso. Così, per diversi giorni, abbiamo girato tra alcuni luoghi dove io sentivo più vicino il film o il passato della mia vita. Quando siamo venuti qui per Mediterraneo, Kastellorizo era ancora semidistrutta dalla seconda guerra mondiale, piena di dimore abbandonate, bombardate, bruciate. In quelle poche case che restano ancora oggi così, c’è un po’ l’anima dell’isola, con cui parlo. È diventato un altro viaggio dentro di me, nella memoria. Abbiamo anche ricreato alcune inquadrature di Mediterraneo. È stata un’esperienza molto emotiva, che mi ha fatto riflettere sul perché quest’isola sia così importante per me ancora adesso. E sono sicuro lo sarà fino alla mia morte. Adesso tutto è cambiato, ci sono i turisti, ma questa terra conserva ancora molti angoli dove non c’è nessuno e si può cercare di trovare un contatto ancestrale con la sua natura abbagliante e intimamente misteriosa. In certi momenti, mi è sembrato di rivivere il mio passato mischiato con il film, domandandomi perché continuo a tornarci, che cosa fa e ci fa il tempo.

C’è qualche luogo dell’isola di Mediterraneo a cui sei più legato?

Uno dei luoghi che più amo è una piccola costruzione dalla forma molto particolare, in fondo al porto. Non è una chiesetta, come sembra, ma un antico deposito, che poi era diventato una specie di magazzino pieno di robe abbandonate. Nel 1979 arriva questo artista eremita, Aleksandros Zigouris, e lo ripulisce, trasformandolo in uno straordinario atelier che sembra scolpito nella montagna, mantenendo una semplicità che sa di senso dell’origine. Fuori dai bar e dai ristoranti alla moda, dalle barche e dal turismo di massa, lì c’è qualcosa che resta, grazie a questo genius loci, al senso del tempo che rappresenta e si arresta, immerso tra gli ulivi. Sono questi i luoghi dell’isola che connettono il me stesso del film con quello che sono adesso e sono stato tante volte tanti anni fa. Tutti i tempi dei miei ritorni si siedono con lui quando siamo lì insieme. Quando vado da Aleksandros, è come se m’incontrassi in quel luogo. Il momento più bello è la sera, quando scendono le luci e lui accende una piccola lampada a petrolio: un’immagine unica.

Com’è stato rivedere Mediterraneo qui a Kastellorizo, tanti anni dopo, in un autentico bagno di folla?

Uno dei motivi per cui, negli anni, ho avuto difficoltà a rivedere Mediterraneo, e a rivivere questo bellissimo periodo, è perché il film è stato uno di quei momenti in cui la vita si unisce al lavoro e al viaggio. È stato uno di quei rari periodi dell’esistenza, di cui ti rendi conto solo dopo, con un po’ più di esperienza sulle spalle, che in quel momento si viveva qualcosa di speciale, che non avresti mai più dimenticato e avresti rivissuto continuamente nella memoria. Nel tempo, con Mediterraneo, si è creato una specie di rapporto umano, delicato, come fosse una persona con cui sono cresciuto. Quel che ho cercato di raccontare nel mio discorso introduttivo, che ho scritto, riscritto, tagliato, è che, a un certo punto della mia vita, avevo giurato a me stesso che su quest’isola non sarei più tornato, perché rappresentava il luogo della giovinezza perduta, della fortuna insperata, dell’entusiasmo e dell’ingenuità, prima di raggiungere un certo successo che proprio il film su quest’isola mi aveva regalato. Quindi, in un momento difficile della mia vita, dopo la morte di mio padre, avevo deciso di non mettere più piede a Kastellorizo. Poi, invece, sono tornato sui miei passi quando ho cominciato a scrivere, libri e articoli. Ho capito che qui non ero solo l’attore di Mediterraneo, ma una persona che in questo luogo si ritrovava e poteva persino abbandonare il mestiere che l’aveva reso famoso. Scrivere mi permetteva di raccontare le mie storie e questo era il luogo da cui tutto era partito. Il ritorno al passato che cambia e ti cambia. In quel periodo ho anche registrato le voci degli anziani di Kastellorizo (qualcosa che farò entrare nel documentario di Danae Elon): adesso sono quasi tutti morti, avevano fatto le comparse per Mediterraneo, erano i depositari della memoria di quest’isola. Farò ancora parlare le voci di questi straordinari fantasmi del Mediterraneo, che raccontano le loro odissee, riportando indietro un mondo che non c’è più.


di Davide Magnisi
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