Asteroid City
La recensione di Asteroid City, di Wes Anderson, a cura di Mariangela Di Natale.

Un omaggio alle ossessioni dell’America anni 50. Asteroid City, l’ultimo film di Wes Anderson, presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, è nelle sale italiane dal 28 settembre. Il regista texano ci trasporta in un mondo incantato e surreale ma allo stesso tempo familiare, in una sorta di quadro vivente. Una storia immaginaria, “il sogno dentro a un sogno”, ambientata negli anni ’50 ad Asteroid City, cittadina del Nevada nota per l’impatto di un asteroide gigante, che raduna giovani scienziati per una convention, la Junior Stargazers.
I convenuti, accompagnati dai loro familiari, improvvisamente a causa dello sbarco di un exaterrestre vengono bloccati e tenuti in quarantena da un generale dell’esercito (Jeffrey Wright) che vuole impedire che si sparga la notizia del visitatore interplanetario. Qui si incontrano i destini di Jason Schwartzmanun, un barbuto reporter di guerra con quattro figli e vedovo da poco, un nonno malinconico (Tom Hanks) padre della moglie scomparsa (Margot Robbie) che raggiunge le nipotine, un’attrice che interpreta solo drammi ma vorrebbe fare anche commedie, e una scienziata sopraffatta dai clamorosi eventi. Un’umanità variegata e variopinta tra colori pastello e linee geometriche, sperduta in un villaggio ciclopico che dovrà farà i conti con la convivenza difficile dei nuovi arrivati.
Una metafora sul deserto della nostra frustrazione e insoddisfazione che comincia con il guasto di un’auto in panne nel mezzo di Asteroid City, in cui i personaggi, resi fantasiosi dai costumi di Milena Canonero dai colori pastello celeste, arancio e giallino, dovranno coabitare, tessere legami e conciliarsi. Una sorta di gioco “alieno” (grazie al production designer Adam Stockhausen) di quinte e flashback in cui appaiono ufo, rocce infuocate del deserto, cactus giganteschi, una vasca che rammenta Psycho, una cabina telefonica imbrattata dai numeri, una pompa di benzina e distributori automatici che servono dai Martini alle armi. Un film che appare come un’opera teatrale, confinato tra concretezza e finzione, una narrazione a scatole cinesi in bianco e nero e a colori, in cui c’è sempre un tocco improvviso di realtà (in questo caso l’America) come il momento in cui arriva un treno carico di avocado, noci e bombe.
Wes Anderson ha sempre governato grandi spazi a partire da Il treno per Darjeeling, Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hôtel, ma il deserto da cartoon di Asteroid City è smisurato e impossibile da controllare, e così conferma “la necessità di sognare la vita per gestire i drammi che solo il cinema sa fare poiché è meglio della vita e ci aiuta a vivere”. La nuova conquista di Wes Anderson è accettare la sua ossessione, affrontare le sue paure, i limiti della sua arte e le angosce del mondo. La sua è una riflessione su come gestire il dolore causato dalla morte di persone care, una delle “più importanti pietre miliari della nostra vita”. Nei film di Anderson “non bisogna dare nulla per scontato, può succedere di tutto. Bisogna aspettarsi l’inaspettato”. Nel cast un inappuntabile Tom Hanks e, sotto la parrucca bruna, una superba Scarlett Johansson, che ricorda una malridotta Marilyn Monroe con lo stile di Gina Lollobrigida (per i costumi dell’attrice, Milena Canonero si è ispirata a Hitchcock).

di Mariangela Di Natale