Faccia a faccia con l’estremo: Luigi Di Gianni

Pubblichiamo la prima parte dell’intervista al regista e documentarista Luigi Di Gianni che sarà inserita nel n. 68 di CineCritica (versione cartacea).
Il documentario secondo Luigi Di Gianni…
Per me il documentario è un pretesto. È stata ed è una cosa preziosa se intesa come una via libera dell’espressione senza passare attraverso le strettoie commerciali. Se per documentario invece si deve intendere un rapporto stretto e diretto con la realtà esterna, incomincio ad avere qualche insofferenza. Per me è stato, almeno in un primo momento, un modo per fare cinema – non essendo riuscito a portare avanti certi miei progetti di finzione…
Perché non sei riuscito?
Non sono riuscito perché, uscito nel ’54 dal Centro Sperimentale di Cinematografia con un saggio di diploma su un soggetto kafkiano, L’arresto, tentavo di fare un film su un fatto estremo di cronaca nera ovvero sulla drammatica vicenda di Cannarozzo. Cannarozzo era un maresciallo di finanza, moralmente integro, siciliano, che viveva ad Ancona con la sua famiglia. Cercava e voleva disperatamente una casa perché viveva in un seminterrato, buio e angusto, dove le sue bambine non potevano nemmeno studiare, per mancanza di luce. La casa l’ha chiesta per anni. A quel punto ha cominciato a scrivere memoriali, lettere, ma nessuno gli ha mai dato alcuna risposta. Cominciò a sentirsi perseguitato dall’indifferenza generale. Un giorno, scattò la follia, si mise in alta uniforme, si armò di bombe ed entrò in un cinema, quello più affollato di Ancona, dove proiettavano Pane amore e fantasia. Poi cominciò a lanciare le bombe, uccidendo e ferendo molte persone. Infine si dette alla fuga e si suicidò. Era un personaggio da considerare non semplicemente come cronaca con denuncia sociale. Volevo farne un caso emblematico della condizione umana, della solitudine umana, della disperazione di un uomo che a un certo momento protesta non soltanto contro un certo tipo di società ma protesta contro l’umanità intera, perché nessuno lo ascolta. Conservo ancora gli appunti di questo film che tenevo molto a realizzare. Chiesi consiglio e sostegno ad Alessandro Blasetti, il quale nutriva simpatia per me dai tempi del Centro Sperimentale, dove era docente di regia. Ricordo che ogni settimana andavo da lui a Via Lazio numero 9, però purtroppo non c’è mai stato un punto d’incontro con le produzioni. Un giorno del 1958 lessi un articolo sul «Messaggero» di Roma in cui si parlava della spedizione di Ernesto de Martino, noto antropologo e storico delle religioni, che, con la sua equipe, si era diretto in Lucania alla ricerca delle sopravvivenze magiche in quella regione. La notizia mi colpì molto, perché all’età di nove anni io ero stato in Lucania, a Pescopagano con mio padre e mia madre. La mia famiglia di parte paterna era lucana. Mio padre, appunto, era di Pescopagano. Mia madre era campana. Partimmo per Pescopagano, mio padre aveva voglia di rivedere il suo paese e di respirare un po’ di aria buona. Fu una grande avventura carica di emozioni. Prima di tutto la meta sembrava irraggiungibile. Ricordo il viaggio interminabile in un vecchio autobus, lungo strade anguste, tortuose, piene di curve, dove si saliva, si continuava a salire e poi si scendeva e poi si saliva ancora senza mai arrivare al paese. Il paesaggio mi parve particolarissimo, misterioso. Mi sembrava di stare in un altro mondo. Un paesaggio abissale che mi affascinava e al contempo m’intimoriva. Appena arrivato a Pescopagano, mi capitò di assistere a un funerale. Un funerale in cui era praticato il lamento funebre. Naturalmente io non ne sapevo niente di lamenti funebri. Mi rimasero impresse alcune immagini strazianti. C’era una donna che precedeva la bara del figlio defunto. La bara era portata a spalle da quattro uomini. Questa donna cantava, in un modo per me indimenticabile e straziante, le lodi del figlio morto. Era un avvenimento tragico ma nello stesso tempo estremamente affascinante. Quindi nel 1958, quando lessi l’articolo sulla spedizione di de Martino in Lucania, mi eccitai. Decisi così di passare al documentario. Riuscii ad avvicinare de Martino tramite un mio amico e futuro collaboratore, Romano Calisi, purtroppo ora defunto. Insieme a Calisi preparammo una scaletta accolta da de Martino positivamente. Però de Martino espresse il desiderio di acconsentire a mettere il suo nome come consulente scientifico nei titoli di testa soltanto dopo aver visto il documentario concluso.
Come fu la realizzazione del tuo primo documentario, Magia lucana?
Fu una sofferenza. Perché era il mio primo film e gli esordi, anche documentaristi, erano difficili. Ricordo che mi presentai alla Documento Film e parlai con Fulvio Lucisano che in quel periodo era impiegato in quella casa di produzione. Fu proprio Lucisano a dirmi che la produzione non poteva rischiare tutto per un esordiente, anche se ero diplomato al Centro Sperimentale. La Documento Film, dunque, decise di rischiare a metà, mettendo la pellicola e i mezzi tecnici e il sottoscritto avrebbe dovuto metterci i soldi in contanti. Ma io non avevo una lira. Mi rivolsi allora a mia madre che era una donna molto intelligente, piena d’inventiva, anche se aveva frequentato solo la quinta elementare. Lei riuscì a trovare, miracolosamente, cinquecento mila lire. Il budget totale era di un milione. Riuscii grazie a questi soldi a cominciare il film. Quando le riprese di Magia lucana furono terminate, montai il documentario e lo presentai a de Martino, il quale rimase soddisfatto e dette il suo imprimatur per mettere il nome come consulente scientifico. Da quel momento nacque una vera amicizia con Ernesto de Martino. Lo frequentavo spesso.
Com’era caratterialmente Ernesto de Martino?
Non era un antropologo piatto, monotono, forse perché soprattutto era un notevole scrittore. Quindi una persona molto affascinante. Ed era estremamente simpatico. Quando cominciava a parlare, se era di buon umore, era divertentissimo. Come in scrittura era estremamente suggestivo e stimolante, così lo era nell’arte della comunicazione verbale. Raccontava delle storie talvolta in modo davvero esilarante. Come quella di un paese in Lucania detto l’innominabile. Pericolosissimo citarne il nome. Porta male. De Martino raccontava della sua esperienza in quel paese. Ovvero lui e la sua squadra di studiosi dovevano salire su un monte dov’era ubicato l’innominabile per intervistare un incantatore di serpenti. Intrapresero questo viaggio e ci furono vari incidenti. Uno della troupe si ruppe una gamba e lo dovettero portare in ospedale. E ancora: si bucò prima una gomma, poi due. Insomma arrivarono con sei-sette ore di ritardo all’appuntamento. Quando arrivarono, l’incantatore di serpenti era morto e intorno a lui c’era la veglia funebre. Io stesso ho fatto delle esperienze in merito, in senso provocatorio. Ad esempio ero andato in una trattoria a Stigliano e chiesi come si faceva ad arrivare in “quel paese”, citando il nome apportatore di sfortuna e di sventure. C’era un cameriere che portava quattro piatti, si fermò di colpo, appena citai l’innominabile. Con molta calma depose i piatti, uno alla volta. Poi si toccò le parti intime. E infine riprese i piatti. Non solo, anche la signora che gestiva il locale mi redarguì con aria truce: «Noi non abbiamo nulla a che fare con quella gente!». De Martino era inimitabile come narratore di storie e di eventi magici… ma, quando entrava in fase calante, di cattivo umore, o si stancava, chiudeva le saracinesche, ovvero gli occhi diventavano un po’ vitrei, e uno capiva che se ne doveva andare. Era molto umorale. Lui comunque aveva capito molte cose di me.
Il tuo amore per il cupo, l’apocalittico ha radici nella tua infanzia?
Sicuramente. Indubbiamente è una scelta di campo, di gusto e di vocazione. Estrema. Io sono per i casi estremi. Quindi il documentario, che per me è stato un pretesto per costruire in fondo della finzione, è stato all’insegna del cinema estremo. Per esempio, de Martino, con il quale avevo fatto amicizia, l’aveva capito perfettamente. E difatti lui mi suggeriva sempre casi estremi. «Guarda, vai lì, lì c’è la fine del mondo. So che altre cose non t’interessano quindi è inutile che te le dica», mi diceva. Con de Martino avevamo in comune l’interesse per la filosofia. In lui c’era la componente idealista, si era laureato con Benedetto Croce, ma anche quella marxista e infatti aveva aderito prima al partito socialista e poi a quello comunista. Una terza componente filosofica in de Martino, quella che a me più interessava, era quella, forse considerata più marginale, di matrice esistenzialista. Anche perché io, appunto, non ero né idealista, né marxista. All’età di 17 anni, ovvero quando mi stavo preparando agli esami di maturità classica, leggendo il libro Studi sull’esistenzialismo di Pareyson, m’innamorai della filosofia esistenzialista, soprattutto della parte tedesca, con particolare riferimento a Martin Heidegger. Ebbi la fortuna di conoscere un giovane professore di filosofia che abitava sullo stesso piano di casa mia il quale m’introdusse subito all’esistenzialismo. Era uno stranissimo personaggio, molto nervoso: parlava ridacchiando e agitandosi molto. Magro, ossuto, con gli occhi iniettati di follia. Fu lui a prestarmi e farmi leggere il libro di Pareyson che conteneva la sintesi delle varie correnti dell’esistenzialismo. Trovavo molto affascinante il testo di Heidegger Sein und Zeit. Soprattutto il tema dell’uomo, sentinella del nulla. Prima folgorazione. L’essere per la morte. Seconda folgorazione. E ancora: il concetto dell’angoscia. Angoscia non in termini psicologici ma metafisici: il rapporto con il nulla. La mia infanzia è stata contrassegnata da rapporti molto strani con il cinema e con lo spettacolo in generale. Ero innamorato di film tetri e fantastici. All’età di 4 anni ho visto il film muto Il fantasma dell’Opera (1925) e m’innamorai naturalmente del mostro interpretato da Lon Chaney (ride). Sempre da bambino, all’età di 5-6 anni vidi Il vampiro (1932) di Dreyer, altro film cupissimo. Quando lo rividi al Centro Sperimentale lo ricordavo benissimo, addirittura con le emozioni intense che il film mi aveva procurato. Mi ricordavo, ad esempio, la danza macabra dei servi del vampiro oppure l’ambiente, gli oggetti che vibrano paurosamente quando il vampiro viene minacciato. Poi mi sono innamorato di un attore come Boris Karloff. Mi piaceva soprattutto Frankenstein (1931) di James Whale che vidi per la prima volta a 8 anni. Il film rappresentava uno dei risultati migliori del cinema dell’orrore di marca americana ma di derivazione espressionista, soprattutto dal punto di vista formale. Ho sempre avuto un grande amore per il cinema dell’orrore degli anni Trenta. Contemporaneamente mi piaceva un certo tipo di avanspettacolo. Di fatto da ragazzino, da una parte cercavo Karloff, dall’altra andavo al cinema-teatro Brancaccio e seguivo con passione l’avanspettacolo. Inutile dire che mi piacevano tantissimo le ballerine, quando scendevano sulla passerella… mi procuravano tanta emozione… con gli occhi dipinti in blu… le gambe lunghe e agilissime… infatti mi dicevo: «Che peccato essere così piccolo!» (ride). Ma a parte le ballerine, ebbi un incontro molto particolare con Totò. All’età di 6 anni mio padre e mia madre mi condussero al teatro Eliseo, a Carnevale. Io ero vestito da antico romano. C’era una recita per bambini con Totò. Io non lo conoscevo. Appena lo vidi recitare, impazzii. Caddi addirittura nella fila sottostante con grande fragore, le armi sia pure carnevalesche a quei tempi non erano di plastica… Totò a teatro era davvero irresistibile. Il cinema non dice niente di Totò. A teatro lui lavorava sul nulla, su delle gag minime. Era eccezionale. Imprimeva una tale pulsione verso l’assurdo… era ed è inimitabile.
Il comico con l’apocalittico, sono i due estremi che si toccano…
Esattamente. Perché Totò era estremo. Ad esempio la commedia all’italiana, proprio per la sua natura, non è estrema, e io non l’ho mai amata. Pur apprezzando i singoli film, io ho sempre amato la comicità surreale, assurda come quella appunto di Totò.
Quindi meglio Totò marionetta che Totò neorealista…
Assolutamente sì. M’interessava il Totò che poteva magari essere collegato al teatro dell’assurdo.
Com’eri da ragazzo?
Da ragazzo ho vissuto l’occupazione nazista. Premetto che prima dell’occupazione ero un convinto fascista. Andavo infatti alle adunate della Gil tutti i sabato. Però qualche volta avevo dei problemi e delle sensazioni negative: il senso eccessivo del “collettivo” e del celebrativo, ovvero la retorica, mi davano un gran fastidio. Nello stesso tempo sentivo che era mio dovere essere presente e allora andavo alle adunate. Qualche volta le saltavo per seguire l’avanspettacolo.
La tua esperienza al Centro Sperimentale di Cinematografia…
Fu un periodo molto intenso. Vedevamo tantissimi film, con tre proiezioni a settimana. Avevamo docenti preparati e coinvolgenti come Fausto Montesanti e un illustre storico del cinema, il belga Carl Vincent. E poi Renato May, docente di tecniche della regia, col quale successivamente strinsi amicizia, e la docente di montaggio Maria Rosada che si prestò con dedizione e disinteresse al montaggio di Magia lucana. Ricordo Montesanti che introduceva le proiezioni con acume e partecipazione appassionata. Era così preso dal suo fervore filologico che un giorno si lasciò sfuggire una battuta, con autentico rammarico disse: «Ah… se potessi conoscere il nome di quelle persone che scendono dal treno…». Si trattava del film L’arrivée d’un train en gare a la Ciotat dei fratelli Lumière. Avevamo visto tanto cinema, ma debbo confessare che i documentari mi annoiavano un po’. Mentre, per quanto riguarda il cinema di finzione, avevo una predilezione assoluta per Dreyer, soprattutto per il Dies Irae, e poi per l’espressionismo e il post espressionismo tedesco. Ricordo tra gli altri film L’angelo azzurro (1930) che avrò visto tante e tante volte nel corso della vita, e del quale parlavo spesso. Ci fu anche un piccolo dibattito con un mio collega del Centro Sperimentale, il quale mi domandò: «Scusa, ma tu cosa ci vedi di buono ne L’angelo azzurro? Non senti che manda un cattivo odore?!». E io: «No, io non sento nessun cattivo odore, e poi c’è una bellissima donna, Marlene Dietrich». Guardandomi con perplessità mista a un po’ di compatimento, mi disse: «Ma tu sei proprio un decadente!». In quel tempo al Centro Sperimentale, tra gli allievi registi, c’era un interesse assoluto per il neorealismo: io in parte condividevo, ma mi affrettavo ad aggiungere che non esisteva solo il neorealismo. Anche se amavo molto film come Umberto D e Germania anno zero.
di Domenico Monetti