Costellazione Tornatore – CineCritica Primo Piano

Il cinema di Tornatore è una costellazione non facile da catalogare. È lecito che ognuno scelga la strada giusta per orizzontarsi e capire.

È stato come fare un film, di quelli difficili da girare, a tante mani: mettendo molto ma rinunciando a qualcosa, trovando nuove idee e scartandone altre. Per quasi un anno, come gruppo toscano del Sncci, abbiamo lavorato sul cinema di Giuseppe (Peppuccio) Tornatore, organizzando al nostro meglio il Premio Fiesole ai Maestri del cinema del 2014 (si è svolto a luglio) e costruendo  un libro, L’uomo dei sogni (a cura di Marco Luceri e Luigi Nepi, edizioni ETS d Pisa). Sin dall’inizio, al momento non facile della scelta dell’autore da onorare, ci siamo confrontati, anche con un certo calore. Succede quasi sempre per la verità, perché, pur contando sul sostegno di un direttore artistico stabile (Giovanni M. Rossi), procediamo per la selezione col metodo del “collettivo” (una trentina di soci, fra giornalisti della carta e della rete, professori e operatori cine-culturali); è dunque arduo trovare un nome che sin dall’inizio metta tutti d’accordo. Ecco, nel caso di Tornatore la discussione è stata più aspra del solito.

Si ha come la sensazione che il rapporto fra il regista e i suoi critici sia nato male sin dall’inizio, dai tempi di Nuovo Cinema Paradiso, che fu accolto con distratta indifferenza all’uscita nelle sale e solo vari mesi dopo fu consacrato prima a Cannes e poi a Los Angeles con l’Oscar. La storia è nota, inutile rievocarla nei dettagli. Ma è giusto almeno sottolineare che in quell’anno (1989) molti recensori dei giornali italiani dettero più spazio e attenzione a Splendor, un film oggi piuttosto dimenticato di Ettore Scola che raccontava una storia analoga (la malinconia per la chiusura di una vecchia sala cinematografica) attraversata dalla presenza di Marcello Mastroianni (il proprietario), Massimo Troisi (il proiezionista) e Marina Vlady (la mascherina). Non lo scrivo per polemizzare con antichi colleghi: temo di ricordare che feci quell’errore anch’io nella rubrica settimanale che a quei tempi tenevo sull’Europeo. E resta nel mio cuore il sospetto che quello strano ma certamente non unico caso (un successo a scoppio ritardato favorito da applausi e premi francesi o americani) abbia in qualche misura pesato sul rapporto, per niente facile, fra Tornatore e la maggioranza dei critici italiani. Ora il 2014 sta riportando maggiore armonia. Per pura coincidenza, dopo il Premio Fiesole, Nuovo Cinema Paradiso è stato ripresentato a novembre, in un’edizione accuratamente restaurata, a Los Angeles e nella festosa occasione è stato incluso dalla stampa specializzata americana fra i migliori film italiani di tutti i tempi. Infine ancora a Tornatore è andato in dicembre il Premio “Primo piano sull’autore”, da molti anni organizzato da Franco Mariotti ad Assisi. Che dire, un’ottima stagione per Peppuccio T.

Ma il mestiere del critico non prevede (non dovrebbe prevedere) solo applausi e celebrazioni. Semmai il suo compito, al di là dell’onere del giudizio, è quello di interpretare, decifrare, dubitare. E il pianeta (la costellazione) Tornatore, dolce e irritabile, si presta a continui  viaggi, avanti e indietro nello spazio, dalla mai dimenticata Sicilia («un grande regista ha sempre alle spalle la sua terra» ha detto una volta Tonino Guerra) all’oceano visto dal ponte di una nave che non si può fermare. Tante sono le corse e giravolte nel tempo: dalla riscoperta di Novecento vero e però immaginario (anche grazie ai tanti film visti) alla intuizione allarmata del nuovo Millennio, che affiora negli incubi di “una sconosciuta” o nelle trappole di un’offerta che non è mai la migliore. Tutto comincia per Tornatore con il fascino della fotografia (non senza viaggi in terre assai lontane, come la Russia estrema); e subito dopo con l’attrazione della cabina di proiezione, vissuta come incanto ma anche come luogo privilegiato del mestiere. Dopo i primi passi nel documentario, lo sbocco al cinema romanzante, con una storia da raccontare, verrà dalla porta principale, con una produzione ardita e costosa come Il camorrista, film da carcere e da camorra, che scende da tradizioni salde (il primo Germi, Francesco Rosi, Giuseppe Ferrara, irruente e coraggioso maestro da ristudiare) e arriva sino al cinema-tv contemporaneo, a Gomorra e dintorni per intendersi. È importante l’inizio, con l’assassinio agevolato dal bambino, quasi un’educazione criminale, che a suo modo ripropone lo schema del rapporto fra i ragazzini e gli adulti, spunto ricorrente nel cinema di Giuseppe T. (Nuovo Cinema Paradiso, Baarìa…). Certo una cosa è imparare a sparare ed uccidere, altra penetrare nei misteri di una cabina di proiezione; ma il legame fra generazioni si salda con incontri ed istruzioni di diverso tipo.

Il camorrista colpisce anche per il singolare rapporto che lega l’autore, giovane e debuttante, col suo produttore, che è poi il leggendario Goffredo Lombardo della Titanus, l’uomo a cui molti anni dopo lo stesso Tornatore dedicherà un appassionato docu-ritratto (L’ultimo Gattopardo, 2010). Giuseppe T. capisce subito che per realizzare alcuni film (non tutti, non sempre) saranno necessari ricchi investimenti, abbastanza insoliti per il nostro cinema che non ama più rischiare. Quindi il rapporto col produttore sarà fondamentale, magari segnato da scontri e litigi: successe con Lombardo e poi con Franco Cristaldi per Nuovo Cinema Paradiso. Altre volte, dopo l’Oscar e il successo, il produttore dovrà accettare al buio, senza interferire: capitò a Vittorio Cecchi Gori per Una pura formalità, cupo e affascinante film-labirinto. Quando può, insomma, Tornatore lavora e sogna in grande, senza badare troppo alle spese, sì come fanno i migliori americani: e il dettaglio rende più pericolose le eventuali cadute, i parziali fallimenti.

Tornando all’interpretazione dei film alcune parole chiave sono ricorrenti: la memoria, la nostalgia, la Sicilia, l’amour du cinéma. Sono piste giuste, per carità, ma non del tutto esaurienti. Ricordare è quasi impossibile senza una segreta rabbia; i fantasmi da sala buia non sono l’oggetto di un erudito compiacimento, ma i fragili soggetti di possibili storie da inventare; la Sicilia è sicuramente la terra madre che non si può scordare; ma è anche il luogo da cui staccarsi, in cui tornare, di rado e con cauta diffidenza. Quando Tornatore tenta l’affresco generale di un secolo  siciliano in Baarìa, lo fa partendo dal suo piccolo paese o addirittura dal tinello di casa sua, come suggerisce lui stesso nell’attento biodocumentario Ogni film unopera prima di Luciano Barcaroli e Gerardo Panichi. Dietro l’apparente dolcezza, dietro la corsa di un bambino che apre e chiude il cerchio della favola, volando attraverso i decenni, si avverte la furente tentazione di chiudere i conti col passato, quello intimo e personale e quello dell’Isola-Nazione, con le cose vere e con quelle immaginate. Narrare la Sicilia tutta intera è premessa per non tornarci mai più. Almeno per ora.

Il cinema di Tornatore è una costellazione non facile da catalogare. È lecito che ognuno scelga la strada giusta per orizzontarsi e capire. A me come spettatore, partendo da Una pura formalità, è sembrato di scorgere lo “stato di allucinazione “ come linea non retta ma costante. Il film, scritto e diretto da Giuseppe T. (dal soggetto originale è stato tratto nel 2012-13 un dramma teatrale interpretato da Glauco Mauri) si apre con il primo piano di una pistola che spara. È il prologo a un lungo interrogatorio in un assai strano e isolato posto di polizia fra un uomo braccato (il romanziere Onoff, spudoratamente incarnato da Gérard Depardieu) e un commissario di polizia (il sottile Roman Polanski). Alla fine di una notte buia e tempestosa, quando il rompicapo sarà ricomposto, si apriranno le porte dell’aldilà. Una pura formalità è stato da molti aspramente criticato, liquidato come «giallo senza moventi, thriller senza suspense». A me pare invece che sia una parabola amara sul destino dell’uomo. E al termine della pista, quel che rimane sono i fatti, gli eventi registrati, le fotografie. Mentre non restano i nostri sensi, i nostri dolori, le emozioni, nascoste dai sepolcri e dall’oblio. Tutto è scandito dalla consapevolezza dell’infinito umano segnato da uno spazio chiuso. Sia, come qui, una selva senza varchi o spiragli; o ancora una antica sala cinematografica (Nuovo Cinema Paradiso); o il ponte di una nave da cui non è possibile scendere (La leggenda del pianista sull’oceano). Il sospetto che Una pura formalità sia, in qualche modo, uno spezzone da biografia allucinata, è rafforzato da un frammento tratto dal già citato documentario Ogni film un’opera prima. In una scena si vede Tornatore che cammina fra nebbia e nuvole, nel ponte sospeso che unisce Civita Bagnoregio, detta anche “la città che muore”, alla  campagna non lontana da Orvieto. In quel rifugio, il regista ha scritto e lavorato molto negli ultimi anni. Ma è bello immaginarlo come uno dei suoi personaggi perduti; ombre che si muovono, come scrisse Vincenzo Consolo, sopra un grande lenzuolo bianco, la vita.

In foto:
Baarìa, regia di Giuseppe Tornatore (2009)


di Claudio Carabba
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