Le recensioni di La città proibita, di Gabriele Mainetti, a cura di Emanuele Di Nicola e Paola Dei
Le recensioni di La città proibita, di Gabriele Mainetti, a cura di Emanuele Di Nicola e Paola Dei.

La recensione
di Emanuele Di Nicola
Apertura. Dopo un flashback nella Cina rurale, costretta alla politica del figlio unico, piombiamo ai giorni nostri. Una giovane ragazza cinese viene coinvolta in un giro di prostituzione; in realtà lei, davanti alla maîtresse, afferma solo di cercare la sorella perduta. Mentre le giovani vengono fatte spogliare e maltrattate, per la nostra si prospetta la stessa fine: all’improvviso si ribella e parte una vertiginosa sequenza di kung fu, un combattimento all’ultimo sangue che attraversa diversi ambienti, scantinati, cucine. La ragazza sconfigge brutalmente tutti gli assalitori. E poi il colpo di scena: quando l’ambiente si apre all’esterno realizziamo di non essere in Cina ma a Roma oggi, nel cuore di Piazza Vittorio, il quartiere cinese della capitale.
Grosso guaio all’Esquilino: alla terza prova Gabriele Mainetti con La città proibita prende il kung fu movie e lo reinstalla a Piazza Vittorio, con la giovane asiatica maestra di lotta che incontra il cuoco romano incastrato nel locale di famiglia. Qui regista impasta l’unione di due cinema: quello orientale e quello italiano, fatto di mafiosetti di quartiere, vuoti generazionali, rimpianti negli adulti; fatto anche dell’amabile Sabrina Ferilli nel ruolo della madre, che lavora alla cassa in un’osteria romana dopo l’abbandono del marito; e da Marco Giallini che si mangia le parole, come nella serie Acab, ormai auto-caricatura di se stesso e dell’attore italiota.
Il film promuove a co-protagonista Enrico Borello nella parte di Marcello, il romano che incrocia la sua strada con quella di Yaxi Liu, che è un’inversione di genere di Jackie Chan, e ovviamente finisce per innamorarsene; interessante notare il ribaltamento del cinema kung fu, dove l’eroina assume forma femminile e il maschio combatte solo alle padelle.
La città proibita si esalta a tratti nei combattimenti, nei balletti spaccaossa dominati della regale Yaxi Liu, compiuti in coreografie spettacolari: il migliore resta il primo nelle cucine che usa oli e fornelli come armi letali. Tutto barcolla vistosamente quando si getta nel melodramma del medio cinema italiano, scivolando sui vizi della nostra produzione, sulla romanità automatica senza mai raggiungere il trash sublime del ristorante cinese di Tomas Milian. Resta l’esattezza della cartografia, come in Adagio, qui centrata su Piazza Vittorio, e l’ipotesi finale di melting pot tra due culture per un domani migliore, alla faccia dei neorazzisti. Insomma Mainetti, dopo il cinecomico romano Lo chiamavano Jeeg Robot, dopo il fantastorico Freaks Out, stavolta prova il kung fu all’amatriciana: sempre lodevole il suo tentativo di frequentare i generi tra alto e basso, senza voli pindarici, senza cercare il “grande film d’autore” ma mescolando toni e registri. Non contro il pubblico, ma per un divertimento popolare, per coinvolgere tutti nel gioco, da Chinatown con furore. Ci riesce solo a tratti, offrendo un oggetto strano, ibrido, il suo “a tigre e er dragone”.

La recensione
di Paola Dei
Gabriele Mainetti con il suo lungometraggio realizzato dopo i fortunati Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, torna in sala per proporci un’opera decisamente coraggiosa, come è nel suo stile, dove ibrida generi, dedica citazioni importanti a opere indimenticabili della Storia dell’Arte e della Storia e a quelle della Storia del Cinema. A partire dalla famosissima Giuditta e Oloferne dipinta da Artemisia Gentileschi nel 1620, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Moderna e novella lottatrice di Kung Fu, Artemisia, con una delle più suggestive Opere della Storia dell’Arte, affronta la storia di una delle eroine bibliche che, per salvare il proprio popolo, taglia la testa a Oloferne e, nel contempo, si vendica di Agostino Tassi, da cui era stata stuprata anni prima. Ma le citazioni latenti o esplicite, non finiscono qui ed è evidente quella dedicata a Vacanze Romane di William Wyler con gli indimenticabili Audrey Hepburn e Gregory Peck. Un invito ad osservare la città eterna da nuove angolature fra ristoranti romani e colpi di Kung Fu, che s’incastonano fra le bellezze secolari di una città multistrato. Amore e vendetta s’intrecciano senza esclusione di colpi e con una inclusività che non conosce confini, come del resto è avvenuto anche nelle prcedenti opere del regista romano.
E, a ben guardare, nel film la vendetta ha uno scopo evolutivo, non è fine a sé stessa, ma diviene un meccanismo per evitare che un singolo più forte e prepotente, cerchi di appropriarsi di qualcosa che può rappresentare un bene per tutti. Esattamente come accade nella storia di Giuditta e Oloferne.
Un altro merito indiscusso del film è il ribaltamento degli stereotipi con il protagonista, Enrico Borello alias Marcello, che si conferma un eccellente interprete; cuoco tranquillo e amante della serenità che si contrappone alla protagonista femminile Yaxi Liu alias Xiao Mei, , che evoca l’Archetipo della Amazzone guerriera che combatte per i propri ideali con qualità che di solito vengono attribuite al genere maschile. Non solo combattente, ma sveglia, sempre all’erta fra effetti speciali e il ruolo di super-mamma nel finale. Durante tutto il film Mainetti ci permette di cogliere non solo i contenuti della sceneggiatura di cui è autore con Stefano Bises e Davide Serino, ma anche quelli di senso senza avere la necessità di spiegarci i tratti caratteriali dei personaggi in maniera didascalica.
L’architettura di ogni scena è funzionale alla successiva e permette anche di stabilire una relazione estetica fra noi spettatori e l’immagine stessa. Mainetti deflagra, reinventa, ibrida e si muove fra la storia e le storie, fra il sentire e l’agire. A lui si deve l’inaugurazione di una nuova forma di Cinema. Gli attori , oltre ai due fantastici protagonisti, certamente giocano un ruolo importante e mettono in luce le qualità fondamentali di ogni personaggio grazie ad una pregnanza del corpo che riescono perfettamente a dominare. Fantastica Sabrina Ferilli, eterna sognatrice ferita e ingannata dall’amore, unico e indimenticabile Marco Giallini, icona della romanità cinematografica, Luca Zingaretti, che pur in un breve cameo, mostra il proprio vissuto biografico in pochi minuti.
E accanto a loro tutto il meraviglioso cast che fa parte del film. Completano l’opera la fotografia di Paolo Carnera, le musiche di Fabio Amurri, le scenografie di Andrea Castorina, il montaggio di Francesco Di Stefano e i costumi di Susanna Mastrioanni.
di Emanuele Di Nicola e Paola Dei