Giornate degli autori: intervista ad Alessandro Greco

Irene Gianeselli intervista Alessandro Greco alle Giornate degli Autori 2024.

L’invenzione di Morel (1974), folgorante esordio di Emidio Greco, torna ad essere proiettato a cinquant’anni dalla presentazione al Festival di Cannes (Quinzaine des Réalisateurs) il 27 agosto 2024 in occasione della pre-apertura delle Giornate degli Autori di cui il regista è tra i fondatori e, come ricorda Maurizio Sciarra introducendo il film in Sala Laguna alla Casa del Cinema con Gaia Furrer: “Emidio Greco è stato il primo ad intuire la necessità di una rassegna di giovani autori a Venezia durante la Mostra: il suo spirito di abnegazione nei confronti del lavoro degli altri cineasti è oggi, come allora, raro. Emidio è stato tra i primi che ho incontrato quando ho cominciato a occuparmi di politica cinematografica e insieme, in uno studio notarile a piazza Fiume a Roma, firmammo lo statuto e l’atto di costituzione delle Giornate degli Autori. Ci sono passato pochi giorni fa ed è stata una bella scossa emotiva”. Il figlio di Emidio, Alessandro Greco, oggi produttore (la sua casa di produzione si chiama Morel e non a caso), è presente alla proiezione in rappresentanza della famiglia. “Si tratta di un restauro curato in vita da mio padre – ci spiega – che sarebbe entusiasta di questo evento a cinquant’anni dal suo esordio: è come tornare a casa. Io stesso ne sono felicissimo”.

Quando hai visto il film per la prima volta?
L’ho visto molte volte in vita mia, in età diverse. Mio padre me lo fece vedere la prima volta che ero molto piccolo, l’ho rivisto da adolescente, poi negli anni universitari e ho capito ogni volta un po’ di più, ma da bambino non capivo nulla: erano i primi anni Ottanta, di quella visione ho un ricordo confuso e addirittura noioso, anche se non è un termine che mi piace usare (mi serve per dare l’idea della mia sensazione di quella visione). È un film che ha bisogno, per essere compreso, delle sovrastrutture date dalla maturità, altrimenti ci sono diversi livelli di lettura che rischiano di sfuggire. Io stesso, che l’ho rivisto di recente proprio per questa occasione, ho capito diverse cose di mio padre e si crea una sorta di filo di Arianna sia dei ricordi che del suo insegnamento.

A proposito del filo di Arianna, Emidio parlava spesso di un filo rosso che collega le sue opere. Riguardando L’invenzione di Morel mi sembra piuttosto evidente che l’esordio contenesse già i “suoi” temi, primo fra tutti la relazione dell’individuo con la realtà.
Sì, ci sono diversi elementi di contenuto, temi che ricorrono nei film di mio padre. Da un lato una tensione etica, nella vita non si scelgono scorciatoie, non si scelgono sotterfugi e dall’altro l’accettazione della realtà. La realtà è quella che è, non si può mistificare. Il che non vuol dire che ne siamo succubi. Mio padre diceva: “La vita la decidi ogni giorno la mattina che ti svegli”. Detto questo, le altre persone esistono, la realtà esiste e con questo bisogna fare i conti. Non si può evadere dalla realtà, nella realtà bisogna calarsi il più possibile e muoversi con i propri strumenti e i propri mezzi.

È esattamente la consapevolezza a cui giunge il protagonista de L’invenzione di Morel: l’essenza del reale non può essere sostituita dalla sua idealizzazione, cioè da una finzione che la strumentalizzi.
Nell’invenzione di Morel c’è la rinuncia a una realtà fittizia per quanto “innamorata”, si parla spesso di come il naufrago (Giulio Brogi) sembri innamorarsi di Faustine, che è interpretata da Anna Karina, la musa di Godard (era un cast d’eccezione, con Roberto Herlitzka e John Steiner e le musiche di Nicola Piovani). Emidio introduce un elemento nuovo rispetto al romanzo di Adolfo Bioy Casares: nel film il naufrago distrugge la macchina perché sa di dovere accettare la realtà per quella che è. I simulacri della realtà, per quanto possano apparire più belli della realtà, in realtà, sono falsi.

Questo è un film fondato sulla metafora: una scelta di poetica che ancora oggi, nell’appiattimento generale, sembra rivoluzionaria.
Il film è stato lavorato per quattro anni, diciamo che l’idea è della fine degli anni Sessanta, girato nel 1973, esce nel 1974. Il film italiano è in crisi, già in quel momento, non c’è più la coda del Neorealismo, entra in una fase nuova. Tu citi la metafora, Emidio suggeriva questo per sottolineare che L’invenzione di Morel non è un film fantascientifico, non c’è nulla di “irreale” o “fantastico”. È un film che lavora su ciò che è verosimile e su ciò che non lo è: in questo caso è un film pienamente di metafora.

Jorge Luis Borges nella prefazione al romanzo di Bioy Casares sottolineava come la storia avesse un presupposto scientifico più che soprannaturale: nel cinema di Greco c’è sempre la capacità di conciliare quelli che crocianamente sono considerati poli opposti, cioè la mentalità scientifica e quella umanistica.
Mio padre avrebbe voluto portare sullo schermo Borges, in assoluto il suo scrittore preferito, ma Borges è impossibile da trasformare in immagine senza banalizzarlo: si perderebbero i molteplici livelli di lettura. Così legge Bioy Casares e decide di lavorarci. Emidio non amava infatti elementi sovrannaturali, lo interessava notare che la macchina di Morel somiglia al cinema: nel riprendere e riprodurre la realtà, etterna i personaggi coinvolti nella settimana di villeggiatura. Ma quella di Morel è più una condanna che una salvezza: la macchina diventa uno strumento “contro” la realtà. Ecco anche perché, come anticipavo, nel film il naufrago distrugge la macchina, diversamente da ciò che accade nel romanzo. C’è una sostanziale differenza tra il cinema e la macchina di Morel: lui non avvisa subito i suoi ospiti dell’intenzione di riprenderli durante la settimana di vacanza, mentre si spera che il cinema sia sempre una scelta consapevole.

Il tema dell’ethos di cui parlavi prima è quello che emerge con maggiore forza in questo film: scegliere chi essere, come esserlo. L’invenzione di Morel sembra a volte la prova generale di un attore che deve entrare in una Compagnia di teatranti e, per questo, è anche la scelta di un uomo che deve entrare nella polis.
Questo è un film che mio padre pensa a poco più di trent’anni, ma anticipa anche il modo di raccontare i rapporti tra uomo e donna, del resto succedeva già in Uno, due e tre, cortometraggio di diploma per il Centro Sperimentale di Cinematografia del 1964. Il naufrago con la sua amata non riesce a parlare quasi mai.

Emidio Greco è tra i pochi registi dei quali è chiara una scelta autorale, pubblica, che non può essere separata da una scelta politica privata.
Mio padre è sempre stato un uomo di sinistra, non è mai stato iscritto a un partito, non era comunista, non era un socialista, in Emidio confluiva uno spirito di sinistra liberale. Detto questo, mio padre si è occupato di politica, di politica culturale, non di politica in senso stretto. È stato impegnato nella scrittura di leggi, ma non è stato un parlamentare: era sé stesso. In questo senso era un uomo davvero libero, lo dico con il massimo dell’orgoglio.

Se si guarda alla definizione di Norberto Bobbio, amico del filosofo antifascista Aldo Capitini, l’azione libera è quella autodeterminata. È una concezione che emerge in modo inequivocabile nell’Invenzione di Morel e che sembra basarsi sulla filosofia giusnaturalista che non ha nulla a che spartire con la gestione delle relazioni secondo il neoliberismo contemporaneo e le sue pedagogie reazionarie.
Anche nella gestione degli attori, mio padre si faceva molto amare dagli interpreti non violentandoli mai, cioè senza forzarli, toccandoli pochissimo, accompagnandoli, carezzandoli. Il verbo “carezzare” era uno dei suoi preferiti. Sul set guidava gli attori dove voleva che arrivassero, senza essere invadente: era così anche nella vita. “Pensa alla tua libertà” è la battuta finale del Consiglio d’Egitto (anche questo tratto da Sciascia nel 2002): Di Blasi, interpretato da Tommaso Ragno, risponde così al boia che gli chiede scusa perché è costretto a tagliargli la testa. Mio padre era un uomo libero, credeva che le persone dovessero essere libere e che questa non è una forma di egoismo. Mio padre sul set era assolutamente libero, ha fatto i film che voleva fare e anche quando ha avuto successo nel 1991, dopo Una storia semplice, ha continuato a scegliere il suo cinema.

Con Una storia semplice (1991) il cerchio si chiude, perché è una sceneggiatura alla quale Greco lavora con Andrea Barbato, proprio come L’invenzione di Morel.
Andrea Barbato era un caro amico di Emidio, un giornalista straordinario che il grande pubblico conosce per La cartolina, il rotocalco in onda su Rai3 negli anni Novanta, sino alla sua morte prematura. Vinsero il Nastro D’Argento per Una storia semplice, è l’ultima interpretazione italiana di quello che per me, insieme a Marcello Mastroianni, è il miglior attore del Novecento, Gian Maria Volonté, che poi morirà sul set di Theo Angelopoulos. Per me Una storia semplice è un film perfetto, è un archetipo. È perfetto nel senso tecnico del termine: ritorna su sé stesso e così si chiude.


di Irene Gianeselli
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