Woman in Gold

Discreto film british, calibrato nel ritmo e nella capacità di coinvolgere, dal taglio accademico che rassicura chi voglia approfondire la vicenda legale attorno alla restituzione del ritratto di Adele Bloch-Bauer nonché scoprire qualche retroscena. Dirige il cinquantacinquenne londinese Simon Curtis, nato regista teatrale e poi attivissimo con la BBC per cui ha realizzato molti episodi di serie televisive e film. Per il suo secondo lavoro pensato per il cinema – il primo era stato Marilyn (My Week with Marilyn, 2011) – non cambia molto il suo stile, tanto da far pensare che i produttori abbiano considerato come luogo demandato alla visione più il piccolo che non il grande schermo.

Lo sviluppo narrativo non possiede una vera tensione, vengono raccontate le vicende senza mai cercare effetti di facile presa, non esiste il dramma né il melodramma. Siamo di fronte ad un buon prodotto in cui è più importante quello che viene detto che non l’emozione che possa creare. La scelta registica di utilizzare due tonalità differenti di colore, una naturale e l’altra tendente al seppia, aiuta le vicende parallele ad avere vita indipendente, in pratica due momenti della stessa storia diversi tra loro ma che hanno punti d’incontro per la presenza del quadro e del personaggio traghettante, Maria. Altra scelta interessante e vincente è quella di lasciare nella parte storica i dialoghi in originale, in tedesco, con sottotitoli molto esaustivi in italiano. In questa maniera diviene più intenso il ricordo di anni drammatici per tutta l’umanità.

Curtis, di origine ebreo-polacca racconta, senza mai voler giudicare, degli anni della sofferenza, della vergogna, del dolore per il genocidio perpetrato contro esseri umani che avevano come unico torto quello di avere una nascita o un’origine non ariana; il suo è un documento che soprattutto nella parte relativa al Nazismo ha quasi il rigore di un documentario. Per gran parte del film il racconto più riuscito è proprio concernente questo aspetto:  aiuta a capire, a conoscere gli antefatti che permettono ai giorni nostri di assistere al legal thriller interpretato dalla Mirren e da Reynolds con coerenza e logica narrativa.

Le strade di Vienna, la vita gioiosa all’interno delle case sfarzose dei ricchi ebrei, la voglia di musica e di arte in genere, un’esistenza felice in cui balli e attività di beneficenza erano le cose più importanti. Il bellissimo quadro realizzato nel 1907 da Gustav Klimt e ritenuto l’ultimo del suo periodo dorato, Ritratto di Adele Bloch-Bauer, campeggia nel salone della casa dell’industriale Ferdinand Bloch più anziano della moglie di 17 anni. Lei morì nel 1925 a 44 anni per un attacco di meningite lasciando scritto al marito di lasciare tutte le opere a lei care alla Österreichische Galerie Belvedere, ma il vedovo considerò suoi unici eredi le nipoti a cui era molto legato anche perché le considerava come fossero figlie. La nipote di Adele, Maria Altmann, viveva a Los Angeles da prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale e dopo la morte della sorella scoprì carte riguardanti questo quadro ed altri dipinti da Klimt e di proprietà della famiglia, sequestrati dai Nazisti e rivendicati dallo zio invano. L’Austria si dimostrava apparentemente più disponibile a restituire il maltolto agli ebrei e per questa ragione decise di tentare di ottenerne la restituzione. A lei si affiancò un poco esperto avvocato figlio di un’amica e nipote del compositore Arnold Schönberg, creatore della musica dodecafonica; ben presto si resero conto che l’impresa era praticamente impossibile soprattutto perché il ritratto era per gli austriaci come la Gioconda per i francesi.

Il film dona alcuni dei suoi momenti migliori proprio durante la battaglia legale tra le due parti, con colpi di scena che hanno fatto giudicare la causa, terminata a Vienna nel 2005 con un arbitraggio a favore della Altmann, fondamentale per la restituzione di opere sequestrate durante quegli anni bui. Per un’opera non entusiasmante, la solita straordinaria Hellen Mirren, di origine russa ma nata a Londra dove il nonno uomo di fiducia dello Zar si era fermato nel 1917 dopo la rivoluzione, vive con estrema partecipazione e naturalezza la storia di una donna statunitense a tutti i livelli ma che si sente ancora austriaca con un rapporto di amore e di disagio per quello Stato che ha donato alla sua famiglia tanti lutti e li ha ridotti praticamente alla miseria.

Meno soddisfacente la prova di Ryan Reynolds, di cui si ricorda il non eccelso R.I.P.D. – Poliziotti dall’aldilà (R.I.P.D, 2013), con un viso da nerd giustificato nella prima parte del film in cui il suo avvocato è particolarmente imbranato ma che doveva trasformarsi in una persona più grintosa nel finale.

Più convincente Antje Traue nel ruolo di Adele Bloch-Bauer e un po’ tutti gli interpreti della parte in tedesco: più coesi e in grado con una buona prova corale di rendere in maniera convincente le atmosfere e le emozioni di quegli anni.

TRAMA

Sessant’anni dopo avere abbandonato l’Austria a causa del Nazismo, Maria Altmann crede ad un’apertura del governo austriaco verso una restituzione agli ebrei di quanto loro trafugato e con l’aiuto di giovane avvocato alle prime armi, nipote del compositore Schoenberg e figlio di una sua amica, intraprende una lunga causa col governo austriaco che vincerà con un arbitrato a Vienna.


di Redazione
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