Suburra

Da quando non se ne fa più di cinema di genere, lo invocano tutti. Soprattutto le nuove leve della cinefilia, quelle che per mero demerito anagrafico non hanno mai visto un film di Sergio Martino in sala.
Colpevolmente trascurata dalla critica cosiddetta ufficiale del tempo, quando i film del genere poliziottesco erano considerati in massa “fascisti” e per tanto le stroncature affidate ai “vice” delle redazioni, il cinema di genere (sotto le cui ampie ali si trovano anche l’horror, l’erotico, il giallo, il western e la commedia scollacciata), ha goduto giustamente negli ultimi vent’anni di una riabilitazione totale. Il lavoro di una rivista come Nocturno, i programmi televisivi di Marco Giusti, l’impegno filologico di Franco Grattarola e della squadra di Cine70, ha contribuito a rendere giustizia a una porzione amplissima del cinema italiano ma, soprattutto, a colmare un vuoto storiografico e di informazione sino a qualche anno fa regno dell’approssimazione e dell’assenza di qualsiasi riferimento testuale.

Al di là quindi delle opinioni e del gusto (imperscrutabili per definizione), oggi sappiamo chi era Bruno Mattei e cosa ha fatto. E non è poco, anche se la cosa potrebbe non sembrare, a primo sguardo, fondamentale (ma con Borges e Bragaglia Sr. potremmo appellarci alla massima che raccomanda di prestare attenzione alle note a piè di pagina e alla opere minori…). Inevitabilmente la dicitura del cinema di genere è diventato il luogo del tout se tient. Da purgatorio dei dimenticati a paradiso di coloro che sono “quasi” stati “grandi”. E in questo senso l’entusiasmo degli studiosi degli ultimi lustri, nel dare la precedenza alla scoperta di documenti e film dimenticati, ha forse trascurato di strutturare anche un approccio critico al reperto, restando così, piacevolmente, ostaggio dell’avventura e del gusto. Purtroppo la dicitura cinema di genere, piuttosto che essere compresa nell’accezione di un Joseph H. Lewis o Edgar Ulmer, ossia regno dell’invenzione e della mise en scene (Riccardo Freda e Raffaello Matarazzo), è servita soprattutto a restringere il perimetro dello sguardo e dell’azione. Non più infrazione delle regole ma ripetizione del già visto. Conforto del noto. Una perversa riformulazione dell’adagio secondo il quale il cinema è morto e tutto è già stato visto. Esattamente il contrario, dunque, del cinema di genere che era ed è fuga dallo stereotipo, reinvenzione dei materiali di partenza e accensione visionaria.

In questo senso, non sorprende l’imprendibilità di un film come Suburra. Innanzitutto perché la guerra all’appropriazione del film è stata ed è combattutissima. Dal Il Fatto quotidiano al Il Tempo, la stampa, esaltandolo per i motivi sbagliati o criticandolo per motivi altrettanto errati, ha offerto del film di Stefano Sollima una lettura non politica, ma addirittura cronachistica, limitandone il valore a una maggiore o minore adesione ai fatti cui il film si differisce (la cornice delle doppie dimissioni, per esempio). A seconda dello schieramento del film si forniva una lettura che con il cinema poco o nulla aveva a che fare. Il che, ovviamente, ci sta considerato che lo sfondo della vicenda di Suburra è l’intreccio fra criminalità e politica all’ombra der Cuppolone.

Ciò non toglie che limitarsi alla superficie della traccia narrativa del film significa perdere un’occasione per ragionare su ciò che significa fare cinema in Italia oggi. Stefano Sollima – ricordiamolo ancora una volta: figlio di Sergio Sollima, autore di classici del western italiano e regista del Sandokan televisivo – rappresenta oggi una novità di assoluto rilievo del panorama del cinema nazionale. Stefano Sollima, infatti, più che un discendente del cinema di genere comunemente inteso, ci sembra l’erede più convincente non solo del cinema paterno, ma anche di registi come Alberto De Martino o del primissimo Giuliano Montaldo. Ossia cineasti abilissimi che in virtù della loro maestria trascendevano i materiali dati per creare forme originali. Dando così vita a un cinema schiettamente internazionale ma inconfondibilmente italiano.

L’oscillare di Sollima fra il formato televisivo e il grande schermo, considerato un limite da certuni sia per il precedente Acab che per Suburra, come se il montaggio parallelo e quello alternato fossero di dominio esclusivo della tv, è in realtà la chiave di volta per comprendere come da un lato anche la nostra produzione televisiva abbia dovuto accogliere l’esigenza ormai improcrastinabile di una produzione seriale adulta e, dall’altro, sfidare il cinema a essere all’altezza della migliore televisione senza emularla. Sollima, che conosce alla perfezione entrambi i formati, filma in realtà nel solo modo che conosce: quello del cinema. Osservando da vicino, si può notare come abbia portato in tv un ascolto del territorio che in Italia ha praticato solo Claudio Caligari (e il prematuramente scomparso Nicola Rondolino). Si pensi alla lingua napoletana della serie Gomorra e ai dettagli schiettamente antropologici di cui è costellata; al cinema, invece, il taglio sintetico che, in una produzione dominata dall’imperativo psicologico, è a dir poco una novità. Stefano Sollima, in questo senso, più che un cineasta di genere, è un autentico cineasta d’azione, molto simile a Walter Hill (anche lui, non a caso, considerato agli esordi, ma anche dopo, un plagiarista o, quando andava bene, un calligrafo).

Sollima fa cinema con i gesti e i corpi. E sa anche calarli in un contesto credibile, non mimetico ma antropologicamente convincente. Si pensi alla villa degli Anacleti: casa Savastano trasformata in un campo rom e ripulita. Ma soprattutto: si osservi la precisione con la quale Sollima coglie l’insopprimibile vitalità di ultimi assurti al rango di bassa aristocrazia criminale e la precisione icastica con la quale percepisce il caos incontenibile dei bambini che sfrecciano nella villa. Era dai tempi di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola che la vitalità feroce e anarchica del sottoproletariato non trovava una rappresentazione così efficace e violenta.

A Sollima, cineasta d’azione, basta poco (si fa per dire) per “dire” un luogo, una modalità di vita, un’organizzazione familiare. Un’inquadratura. Il cinema si fa così. Non notare questi elementi, anzi: non vederli, significa rendere un disservizio al film, perché è da scelte di cinema di questo tipo che discende inevitabilmente il discorso politico di Suburra. Non il contrario. O, per restare all’ambito dei dettagli, come non notare l’altare nella casa della madre del Samurai che, ancora una volta, solo con un’inquadratura, dice di provenienza sociale, ceto e origini. Il diavolo, come il cinema, sta sempre nei dettagli. E non è un caso che Suburra film sia molto più interessante di Suburra libro.

La scelta di eliminare il controcampo morale del Samurai, ossia Marco Malatesta, ex camerata passato all’arma, sgombra il campo dal dualismo classico del noir lasciando in piedi solo criminali e corrotti. Con Marco scompare (per fortuna) anche Alice, la parte più debole del libro, coscienza critica e politica idealizzata di una città preda della corruzione. Per quanto riguarda la potenza delle caratterizzazioni di cui è capace Sollima, basti pensare a Favino nudo che dal balco dell’albergo urina sulla strada sottostante allargando le braccia al cielo in un incontenibile impulso di onnipotenza. Quasi una reinvenzione trasversale del finale di La furia umana di Raoul Walsh.

Ancora una volta è il tetto del mondo la meta e l’obiettivo. Non solo: la stessa caratterizzazione del Samurai che dalle pagine del romanzo ci si immaginerebbe come il Lambert Wilson ascetico del secondo Matrix, s’incarna nel corpo di Claudio Amendola che non si fatica a immaginare come il precipitato del Principe di Ultrà e del Mauro di Un’altra vita. Sarebbe interessante capire come De Cataldo e Bonini hanno lavorato con Rulli e Petraglia alla sceneggiatura e quale è stato esattamente l’apporto di Sollima a tutte queste modifiche che investono in maniera sostanziale anche il personaggio di Sebastiano, presentato da subito come consustanziale all’ambiente che ha strozzato il padre. Sollima, in quanto cineasta, gestisce corpi e volumi. Basti pensare alla sparatoria nel centro commerciale dove forse per la prima volta da molti anni a questa nel cinema, si ha la percezione della casualità di quanti sparano in un conflitto a fuoco. Geometrie sbilenche, vittime innocenti, colpi che non vanno a segno, tentativo goffo di coprirsi il volto per evitare di essere ripresi dalle telecamere a circuito chiuso. Nel luogo deputato stesso del film d’azione, la sparatoria, Sollima mette in scena la sostanziale inettitudine di criminali tanto feroci quanto incapaci. E soprattutto il seguito, la crudele indifferenza dei killer che armi in pugno battono il centro commerciale per finire la loro vittima, nel panico generale, a dire dell’acutezza di Sollima: una precisione di gesto e di sguardo tale che non può non essere definita “politica”. E che dire della fuga in automobile sulla tuscolana dopo l’esecuzione nella sauna? Con le auto che escono dai parcheggi e i rossi bruciati? La retorica del genere si cala nella realtà del luogo (territorio) e produce immagini nuove, non ancora viste. Una corsa molto diversa da quella dei poliziotteschi classici che tentavano di reinventare Bullitt o il Braccio violento della legge sulla Nomentana, la Tangenziale o il Lungotevere Flaminio ricorrendo ai servizi di Remy Julienne. Rispetto al libro, il cui aspetto più appassionante è proprio la scoperta di una geografia urbana che si estende da Roma Est a Ostia, il film diventa quasi un kammerspiel.

Le stanze del potere, e le saune, le camere d’albergo e i bar, baracche e ristoranti. Un’umanità ridotta ai bisogni primari e sempre chiusa in interni. Sollima è riuscito nell’impresa di prosciugare la materia del libro (vedremo come si svilupperà la serie televisiva) è offrire l’unico controcanto credibile alla Grande bellezza. La Roma di Sollima, soffocata da una pioggia torrenziale, è assolutamente documentaria nella precisione con la quale reinventa la città che mette sempre più a dura prova resistenza e pazienza dei suoi cittadini, esposti a disservizi e carenze strutturali. Tutto ciò Sollima lo realizza lavorando con inquadrature e montaggio; movimenti di macchina (geniale il passaggio da Viola sugli scogli che digerisce le botte al ritrovamento in acqua della prostituta). Senza contare la scommessa di un utilizzo della musica (tratta in maggior parte dal repertorio degli M83) che avvolge il film come in bozzolo ambient creando così un perturbante effetto derealizzazione di luoghi e situazioni che la cronaca quotidiana ha già provveduto, paradossalmente, a derealizzare di suo.


di Giona A. Nazzaro
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