Wolf Man

La recensione di Wolf Man, di Leigh Whannell, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Poteva sembrare effimero lo sforzo di Jason Blum e della sua casa di produzione declinata sull’horror, ma dopo un quarto di secolo si può tranquillamente affermare che, un po’ come ha fatto la A24 nel mondo del cinema indipendente, la Blumhouse ha rovesciato l’ottica cin cui si produceva -e si guardava- un film horror dell’età moderna.

Wolf Man è ad esempio un progetto ad alt(issim)o rischio: reboot della omonima pellicola del 1941, fa parte della riscoperta dei mostri classicissimi della Universal, operazione che ha vissuto vicende che denominare alterne è dir poco. E non che al cinema sia stato un personaggio particolarmente di successo.

Probabilmente, molto gioca a favore avere Leigh Whannell alla regia: un autore che ha saputo parlare di transumanesimo (con Upgrade) e di violenza sulle donne (con L’Uomo invisibile) giocando intelligentemente e abilmente con il genere, senza dimenticare la sua parte nella creazione di franchise come Saw – L’enigmista e Insidious, due film profondamente legati agli sviluppi politici e sociali della contemporaneità.

Era allora lecito aspettarsi qualcosa di grande anche stavolta: Wolf Man è un incubo che gemma sull’origine del male, facendo confrontare il trauma familiare con il rifiuto della mascolinità, e nello stesso tempo un film feroce, doloroso. Whannell mostra ancora una volta allora come il dramma e la crudeltà dell’horror sono il luogo migliore per osservare la ferocia e la parte istintuale di ognuno di noi, seguendo il volto fragile di Christopher Abbott per seguire la traccia rossa di una mascolinità fragile che mette in discussione le proprie radici. E non si parla di “luogo” solo per modo di dire, Perchè Wolf Man ha una messa in scena impeccabile, classicissima nel far combaciare ogni frammento di bosco con il Male: e una delle caratteristiche più convincenti del film è poi il suo specchiarsi nel body horror pure tenendo quanto più possibile fuori scena e fuori fuoco il mostro, rendendolo insieme sia sfuggente che ripugnante, e giocando il tutto per tutto con lo spettatore quando per quasi tutto il film trattiene lo slancio gore -come a trattenere il fiato- per poi lanciarsi in un finale sanguinolento, rielaborando e restituendo tutta l’emotività della storia.


di Gianlorenzo Franzì
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