U.S. Palmese

La recensione di U.S. Palmese, di Marco e Antonio Manetti, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Ormai si può farlo senza essere presi per folli, avvicinare i Manetti bros ai territori cinematografici di Lucio Fulci: ovvero quell’attitudine, apparentemente semplice eppure difficilissima, di attraversar i generi mantenendo la propria identità, il proprio stile, senza rinunciare alle ossessioni stilistiche rincorse e raggiunte. Dalla paura (Paura 3D) alla fantascienza (L’Arrivo di Wang), dl thriller (Piano 17) al gangster movie (pure musicale, il capolavoro Ammore & Malavita) arrivando fino ai cinecomics (la trilogia di Diabolik), Marco e Antonio sono due cineasti completi, due terroristi dei generi che affrontano ogni film e ogni genere senza pregiudizio di sorta anche a costo di lavorare su budget ristretti. Ne è la prova lampante U.S. Palmese, film con una storia difficilissima per i rischi narrativi: per la approssimativa vicinanza narrativa a Chi Segna Vince, ma soprattutto per il pericolo di cadere in una facile retorica buonista fatta di buoni sentimenti e scontati lieto fine. Rischio dribblato: perché i due conoscono il mestiere e hanno (insieme alla cosceneggiatrice Luna Gualano) una penna felice, ma soprattutto l’intelligenza di uno sguardo originale su ogni questione e per ogni storia.

È in questo modo che U.S. Palmese riesce, per buoni due terzi di percorso, a non cadere mai in nessuna trappola o clichè: parte benissimo, infatti, con un ritratto realistico e affascinante quanto sempre ironico e mai malinconico su una Calabria fatta di sole e stradine semideserte, di vite al margine ma mai rassegnate, di realtà felici e mai pietose; per arrivare a centrare il discorso sul calcio riecheggiando l’estetica di tanti anime giapponesi, a partire da Holly & Benji, fatta di soggettive dal pallone in volo, flashback e punti di vista moltiplicati che non rallentano il ritmo ma anzi lo arricchiscono. Certo, fin dall’inizio si intuisce bene dove si vuole andare a parare: ma in fondo è così per ogni horror e per ogni thriller, i Manetti lo sanno bene e allora riescono ad infarcire il percorso di detour felici, interpretazioni brillanti (su tutti, Max Mazzotta strepitoso), personaggi centrati. Perché la commedia, in fondo, non è altro che un genere come un altro: basta trovare la chiave giusta.


di Gianlorenzo Franzì
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