Trap

La recensione di Trap, di M. Night Shyamalan, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Trap è da ogni punto di vista una sorta di rinascita e riconferma per Shyamalan, opera che spiazza fin dal trailer dove un presunto twist viene svelato fin dai primi secondi: il film parte proprio così, inserendo nella storia fin dall’inizio un puntello che scardina l’ordine stabilito delle cose (un padre di famiglia che al concerto della star amata dalla figlia scopriamo essere uno spietato serial killer braccato dall’FBI) costringendo chi guarda a chiedersi cosa succederà dopo.

È da qua che parte la costruzione di Trap che, inesorabile proprio come una trappola, riesce ad essere un thriller accorpando le caratteristiche autoriali di Shyamalan e le sue ossessioni senza perdere un colpo e senza una caduta di tensione.

Come in tutta la sua filmografia, infatti, il regista indiano mette in scena una lenta progressione in sottrazione con una storia che mantiene un tono lento e assorto, mentre si scivola dall’empasse della quotidianità in una nuova dimensione: così i suoi personaggi e il suo pubblico scoprono l’orrore, prendono atto dell’inverosimile, il tutto mentre Shyamalan smonta nuovamente il concetto di orrore e lo rilegge, costruendo una nuova, impeccabile, brillante fonte di tensione imperterrita che cattura lo sguardo dello spettatore per lasciarlo andare solo dopo i titoli di coda.

Intelligentemente, ma anche sorprendentemente, in Trap poi Shyamalan rinuncia a quel twist plot che per quanto felice rischiava di restringere tematicamente la sua opera. Anzi, né dà uno farlocco all’utente più accanito, però si tiene stretto quello che del suo cinema costituisce l’ossatura fondante: ovvero un nucleo familiare disfunzionale alle prese con la malattia. Come in Signs, in The Village, in Bussano alla Porta e in Old, non è la rivelazione finale a tenere su il film ma sono i personaggi, ognuno con un suo disturbo nascosto o meno alla propria famiglia: un disturbo che porterà alla fine a comprendere in che mondo viviamo, quali sono le regole e in definitiva quale sia la morale e l’etica che sorregge tutto.

Ancora dopo venticinque anni e sedici film, allora, Trap rende chiaro l’apparato teorico dell’opera shyamalaniana, che non intacca la concretezza dell’apparato narrativo (anzi, la sorregge e la aumenta) né la sua speculazione intellettuale di un racconto che mette al centro, sempre e comunque, l’esperienza emotiva ed emozionale dei suoi protagonisti.


di Gianlorenzo Franzì
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