The Shrouds – Segreti sepolti
La recensione di The Shrouds - Segreti sepolti, di David Cronenberg, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Cercare di scrivere qualcosa su opere come The Shrouds – Segreti sepolti (di qui in avanti solo The Shrouds) è un fallimento in partenza: film così enormi, colossali, perfetti e chiusi in sé stessi, da rendere impossibile essere riassunti criticamente.
Nello stesso tempo, il nuovo film del regista di Videodrome -dopo la morte di Lynch, uno dei pochissimi, veri giganti del cinema che ancora resistono all’usura del tempo e anzi la sconfiggono- è una sorta di aggiornamento, un update: da tanti anni la poetica della Nuova Carne si è compiuta e non resta solo che aggiornarla periodicamente, il tema metatecnologico deve solo guardarsi intorno e mostrare come si evolve e come si manifesta, oggi.
O ancora, The Shrouds è un prisma. Una superfice levigata che filtra la trama e però la moltiplica in mille rivoli: la regia di Cronenberg è andata via via scarnificandosi raggiungendo ora l’essenzialità, che prosciuga ogni inquadratura da ogni movimento temporale, facendo sì che il racconto non sembri andare verso avanti o verso dietro, ma semplicemente salta da una prospettiva ad un’altra, con tante immagini strettamente interconnesse l’una con l’altra.
Ogni immagine, ogni scena è così essenziale nella sua messa in scena visale, e insieme così impregnata di significati fittamente collegati, al punto che non appena si tenta di svelarne i segreti nascosti si entra in un tunnel senza uscita, pieno di svolte e bivi, che a percorrerlo tutto ci si perderebbe solamente.
In The Shrouds c’è l’inequivocabile dato biografico, perché Cronenberg ha perso la moglie Carolyn Zeifrman nel 2017 dopo tre decadi di vita insieme così come Karsh (Vincent Cassel) ha perso la sua: ma questo è solo uno dei tanti punti di partenza.
Ma la morte pian piano sembra diventare solo una maschera ideologica per parlare di cospirazione (in fondo è una delle ultime parole pronunciate nel finale), un tema caldissimo e affrontato da una prospettiva laterale e subalterna: noi come i protagonisti siamo immersi letteralmente in una rete intersoggettiva di cui non abbiamo -se mai lo abbiamo avuto- il controllo, siamo guardati e guardanti nello stesso momento.
E allora entra in ballo la tecnologia. Che come sempre accade in Cronenberg non viene oltrepassata da luddismi velleitari, bensì semplicemente dalla sottrazione della sua finalità: e si trasforma in qualcosa di fine a sé stesso, entrando nella pura dimensione dell’estetica.
Questo film è un palcoscenico in cui pian piano entrano e passano tutti, come fossero protagonisti, solo per cedere il posto a chi viene dopo che a sua volta sembra essere il centro di tutto: la cognata, l’amico, l’affarista orientale, gli ambientalisti islandesi, lo scienziato pazzo scomparso, un magnate ungherese, un oncologo, hacker russi. Insieme a morte, perdita, dolore, tecnologia, futuro, futurismo, tutto insieme come tasselli di un puzzle che non ha soluzione perché l’ultimo pezzo mette in discussione il primo, ma forse una soluzione neanche serve, neanche c’è.
Ed è in questa apparente irrisolutezza (voluta, cercata, affinata, combinata ad hoc dalla trama) che The Shrouds si rivela tragico, doloroso, incredibilmente affascinante al limite del perturbante nel suo non accontentarsi di guardare in faccia la morte -Cronenberg lo aveva già fatto nello short film The Death of David Cronenberg– ma anzi di voler andare oltre la morte.
The Shrouds raccoglie indizi come un giallo ma non è un giallo, non c’è nessuna mappa da seguire per arrivare alla meta perché non è concepibile nessuna verità. Se non quella della nostra resistenza.
Perché non c’è nessuna verità, se non quella delle nostre emozioni, dei nostri incubi, delle nostre ossessioni. Siamo noi il sudario: abbiamo avvolto il corpo che abbiamo amato, e una volta che questo si è consumato, a noi non rimane che la forma, il ricordo, il desiderio per quello che non c’è più.

di Gianlorenzo Franzì