Cure
La recensione di Cure, di Kiyoshi Kurosawa, a cura di Gianlorenzo Franzì.

Esce nel 1997 Cure, che è il figlio del decennio perduto nipponico e insieme punto di partenza della riflessione filosofica di Kiyoshi Kurosawa che da lì in poi concentrerà il suo sguardo sulla natura dell’essere umano e i suoi rapporti con la realtà, approfondendo i confini e la profondità dell’immateriale.
Cure è allora il magnifico edificio in cui per la prima volta Kurosawa costruisce i suoi labirinti, immersi negli spazi culturalmente marginali del Giappone, portando alla luce disagi e crisi sotterranee che attraversano il tessuto sociale di una nazione in crisi esistenziale. E allora, prima di spostarsi nei territori extra-capitale, nel periodo post-bolla (1991-2001), con Cure codifica l’Apocalisse, sovrapponendo la demolizione del mondo interiore dell’individuo all’annichilimento dello spazio circostante. Le strade deserte della città, i paesaggi postindustriali impolverati e pieni di macerie, sono il propulsore dei fantasmi che non possono astrarsi dagli spazi materici di un mondo dominato dalla desolazione.
Nel cinema (e nella fattispecie, quello horror), quella dell’Apocalisse è l’allegoria più potente e forse l’unica capace di mettere in scena le psicosi contemporanee, ed ecco che il regista restituisce il mondo post-bolla come un inferno in terra.
In Cure, il baricentro narrativo è l’enigmatico, perturbante, insinuante serial killer amnesiaco senza identità: è lui a metaforizzare una realtà intrisa della disperazione e del senso di sfasamento di un intero popolo.
Queste allegorie -neanche troppo- sotterranee reggono una storia che fin dall’inizio sembra avvolgersi su sé stessa in un nitore abbagliante: fin dall’inizio le varie scene che si susseguono sembrano tasselli di un mosaico che non possono combaciare, sparse in una Tokyo deserta e fantasmatica, spaventosamente immobile, dove il vuoto delle strade è speculare alla vacuità dei suoi abitanti. La cosa forse più straordinaria di Cure è però, probabilmente, la sua radicalità sociologica impressa a fuoco nel suo villain: un uomo senza identità, senza emozioni, senza pulsioni, un baratro oscuro di nulla che attira a sé chiunque gli si avvicini inglobando le sue prede e neutralizzandole nel senso letterale del termine, cioè rendendole neutre come lui. Un agire che trova terreno fertile intorno a lui perché le strutture degli individui sono vuote, vacue, e gli soccombono senza fare resistenza, come fantasmi senza materia.

di Gianlorenzo Franzì