The Dead Don’t Hurt

La recensione di The Dead Don't Hurt, di Viggo Mortensen, a cura di Andrea Caramanna.

I morti non soffrono” è il titolo del film che è ripetuto in una scena laddove la morte necessaria per la sopravvivenza, si tratta di un volatile ancora caldo, che il piccolo Vincent (Atlas Green) tiene nelle mani… chiedendosi se soffra… prima di essere cucinato. E la risposta del “padre” è quella appunto del titolo…

Tutta la civiltà dell’immaginario western è in realtà un discorso stretto tra predatori e vittime. Tra gli uomini non cambia nulla. Le leggi che dovrebbero difendere gli accusati di un delitto non esistono di fronte a giurie e giudici corrotti.

Nel processo farsa che Mortensen mette in scena nella prima parte del film che lo vede per la seconda volta dietro la macchina da presa dopo Fallen (2020), è subito chiaro che ci troviamo non solo nel selvaggio West, vedi la terribile impiccagione di un innocente, ma anche che le società umane sono di fatto le medesime un po’ dappertutto. Tanto è vero che l’epilogo anela a una fine del mondo e all’osservazione di un altro mondo “possibile” che però non si riesce a vedere al di là del mare.

L’Olsen interpretato da Mortensen è un danese arrivato in Nord America durante la guerra tra Nord e Sud… e nonostante abbia già combattuto nel suo paese ciò non basta a convincerlo quando decide di lasciare Vivienne, la magica fioraia di origini francesi di cui si innamora.

Vivienne (Vicky Krieps) diventa la vera protagonista, quando per una gran parte del film, decide di continuare a resistere alla follia maschile (della violenza, della guerra, della corruzione, ecc), nonostante abbia già perso il padre in una vicenda che sembra condannarla alla eterna ripetizione.

Infatti, suo malgrado, si ritrova con un bambino, che accetta nonostante la violenza subita dall’aguzzino di turno, Weston Jeffries (Solly McLeod, in un ruolo davvero esageratamente sgradevole).

Mortensen prosegue nel solco della tradizione del western da una parte, con quei valori tutti maschili che alla fine disegnano la solita trama fatta da violenze di tutti i tipi. Ma dall’altra parte lascia uno spazio prezioso e aperto alla prospettiva femminile (non femminista). Prospettiva che di fatto annichilisce ogni possibile narrazione maschile; alla fine Vivienne penserà alla sua vita come a una richiesta di tenerezza e nient’altro…

In questa preziosa parabola versione western, Mortensen filma in maniera molto classica, badando al sodo, mai cedendo a estetismi e stilemi forzati, anche la violenza in fondo è centellinata…

Si concentra soprattutto sul montaggio di Marcel Zyskind in grado di bilanciare alla perfezione l’alternanza tra scene collocate in differenti spazi temporali. E lo stesso Mortensen alle musiche ha un approccio molto classico utilizzando, tra gli altri, Vivaldi. Di fatto The Dead Don’t Hurt è l’ennesimo esempio dell’evoluzione di un genere, il western, che alla fine parla direttamente del presente, pur utilizzando mitologie del passato.


di Andrea Caramanna
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