Beetlejuice Beetlejuice
La recensione di Beetlejuice Beetlejuice, di Tim Burton, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Basta partire (come sempre o spesso si dovrebbe fare) dal titolo, quel sostantivo raddoppiato che si traduce in un rilancio narrativo e uno sdoppiamento visivo: con Beetlejuice Beetlejuice, Tim Burton sembra aver rilasciato quel freno a mano tirato che in tanti gli rimproverano almeno dal 2019.
A fronte di una filmografia ricchissima e anzi straripante, con quel malinconico e disperato bilancio esistenziale che è Big Fish del 2003 Burton sembrava aver perso qualcosa per strada giù giù fino al divisorio Dumbo: a ben guardare, però, con opere che puntellavano il suo cinema (come Frankenweenie -ovviamente il lungo del 2012- o Miss Peregrine -del 2016-) aveva messo in chiaro che semplicemente era cambiato, era cresciuto e con lui era maturato il suo cinema. Il suo sguardo non si era spento ma aveva solo addolcito le forme e i colori.
In qualche modo, Beetlejuice Beetlejuice allora è uno step ulteriore nel quale si fondono insieme i due mondi e le due epoche, dal momento in cui riesce a fare coincidere i capricci stilistici con una serenità che è accettazione e quindi anche (solo) sopita ribellione.
Si ricongiungono i pezzi sparsi di quell’universo gotico che i fan duri e puri rimpiangono ma che è ancora qua, vivo e vegeto, magari conciliato con quel mondo “normale” in cui vive ma sempre pronto a guizzi, disservizi narrativi, tocchi di genio e di poesia improvvisi.
Inconsapevolmente o meno, Burton riparte da quel suo immaginario lontano quasi quattro decadi per risentirsi e mostrarsi ispiratissimo, rimescola con più consapevolezza il cinema del passato (non solo del suo) con l’Espressionismo tedesco stordendo lo spettatore con trovate abbaglianti, e per di più innervando la storia di nuove malinconie: adesso il bric-a-brac scombiccherato non è un gioco teorico, ma un supporto narrativo dove costruire personaggi e situazioni, quasi un flusso di coscienza autoriale che rimesta nella memoria e impasta insieme Mario Bava con Walt Disney, mentre l’inatteso diventa detonatore di un’incoerenza mai come oggi così essenziale e vitale.
Alla fine Beetlejuice Beetlejuice è doppio anche per il suo mettere le generazioni a confronto e farle specchiare l’una nell’altra, per scoprire che il gap percettivo è uno scarto irriducibile, finché non si accetta il tempo che passa, e quindi si fa combaciare la vita con la morte. Si accetta l’Oltretomba come luogo quotidiano. La morte è sempre di più un affare dei vivi: perché ancora una volta, e per sempre, qui si muore (e si vive) solo e soltanto per amore.
di Gianlorenzo Franzì