La recensione di Scomode

La recensione di Scomode verità, di Mike Leigh, a cura di Andrea Caramanna.

Sarà anche una fissazione quella del titolo originale, ma la traduzione italiana con “scomode verità”, non è proprio una traduzione, piuttosto il solito compromesso per arrivare ad un titolo più “frivolo”? O più “intrigante”?

Certo che “scomode” può letteralmente richiamare proprio uno dei titoli più famosi di Mike Leigh, ovvero Secrets and Lies (Segreti e bugie)…

Siamo passati così dai segreti, dalle bugie, alle scomode verità… Invece, questa deduzione appare davvero fuori contesto nell’ultima opera di Leigh. Perché quell'”hard” (duro, severo, rigido, ed anche “spietato”, troviamo in un dizionario qualsiasi… ) accostato a “truth” (verità), ha un altro senso, almeno quello in primis di una piena accettazione della condizione umana, della fragilità, della vulnerabilità, spesso scomparse nelle narrazioni cinematografiche di molti autori…

Ecco che tale durezza o ruvidezza è un connotato importantissimo per avvicinarsi a Pansy, personaggio interpretato dalla bravissima Marianne Jean-Baptiste, che non è lo stereotipo della casalinga repressa… Piuttosto l’espressione di un carattere che si carica di rabbia per paura, la preoccupazione per ogni componente della famiglia, ed ogni angolo della casa… Cosicché, laddove non vede le cose in quell’ordine desiderato, emerge una reazione aggressiva, ed in più la sensazione di trovarsi in una situazione da perseguitati… Pansy che vorrebbe che le cose fossero più naturali e belle purtroppo è sfiorita, inacidita, a furia di reazioni sempre più aggressive, forse difensive, ma che ormai sono borderline con la possibilità di avere più relazioni con gli altri, perfino gli animali (si vede pure una volpe… ).

Leigh insegna allo spettatore soprattutto questo aspetto seguendo a mo’ di pedinamento la protagonista con la mdp che utilizza tantissimo i primi e primissimi piani fissi: tale aggressività è indotta dalla paura, tanto che la protagonista Pansy lo rivela insieme alla stanchezza.

Nel film Leigh preferisce non spiegare, lasciare avvicinare ed allontanare i suoi personaggi, con reazioni fulminanti come Moses, il figlio 22enne che manda affanculo la madre col dito medio, appena lei chiude la porta della stanza.

La sopravvivenza con Pansy per il compagno Curtley ed il figlio Moses è solo il silenzio o qualche piccola osservazione che arriva però nelle prime scene del film, prima che Pansy si chiuda a riccio completamente e prima della scena madre, la riunione presso la sorella Chantelle con le altre nipoti.

Il cinema di Leigh in questo momento storico denuncia la sua posizione contro la “moda” transumanista. Il suo occhio continua ad essere un registratore scrupoloso di tutte le emozioni e il racconto si snoda con un linguaggio cinematografico classico, quasi un kammerspiel, più che altro per la prevalenza assoluta degli interni, che rifiuta virtuosismi “inutili” attraverso il filo rosso della tensione emotiva che ha diversi picchi e climax.

Insomma, il cinema di nessun eroe, che ogni giorno lotta per la sopravvivenza: c’è una bella scena che fa riferimento perfino ai volontari di varie associazioni, considerati anche loro ladri, in una società dominata dalla ipocrisia e dal marketing che ha preso il peggio pur di ingannare. Così un’altra scena in un negozio di divani ci regala un’altra esplosione di rabbia più che giusta di fronte all’ennesima commessa “sorridente”…  Non è solo il mondo di Pansy, è anche il nostro, chi è che non voleva qualche volta sottrarsi al famigerato sorrisetto dei commessi nei negozi, per dare semplicemente uno sguardo?

La nostra società è diventata una sorta di finta copertina luccicante, con le istruzioni a cui tutti devono rifarsi, dove si nasconde il buio e il grigiore di una vita comunque difficile o anche che non vuole essere avvilita dal conformismo delle regole, della “buona educazione”.

Anche se in fondo Leigh ci offre due possibilità di vedere il mondo: come Pansy o come Chantelle, ma in fondo siamo quasi tutti un po’ l’uno e l’altro per cercare di sopravvivere: una risata, ed un pianto proprio come nella suddetta scena madre del film, un coacervo di emozioni che caratterizza il genere umano “stressato” da una società che chiede sempre il raggiungimento di obiettivi. Cosicché un figlio di 22 anni che vaga in giro senza meta o sta chiuso nella stanza con videogames o libri sul volo, non fa solo tenerezza, ma anche preoccupazione e rabbia per il suo futuro (“come lo vedi il tuo futuro tra 25 anni?”, chiede ansiosa la madre).

Ancora una volta ringraziamo il maestro Leigh per questo viaggio intenso attraverso semplici, “dure” e “vere” emozioni. Per continuare a vivere come uomini e donne… in lotta. Infine, ricordiamo anche il direttore della fotografia collaboratore abituale di Leigh, Dick Pope, scomparso appena lo scorso ottobre.


di Andrea Caramanna
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