Il primo giorno della mia vita
Francesco Di Brigida scrive del nuovo film di Paolo Genovese.
Con Perfetti sconosciuti Paolo Genovese ha iniziato a muovere i suoi personaggi in ipotesi, alternative, scacchiere di non detti e segreti che gli hanno fruttato il record di 25 remake sparsi per il mondo. E se con The Place, remake cinematografico peraltro di un’intrigante serie tv, il regista spingeva l’acceleratore attraverso il suo protagonista, un misterioso coordinatore di characters sospesi tra scelte importanti, con Il primo giorno della mia vita approfondisce il tema dell’aiuto e del ripensamento della propria esistenza, dirigendo un altrettanto impenetrabile Toni Servillo come angelo laico alle prese con quattro persone in vena di farla finita.
Inaspettatamente gli anelli di congiunzione tra questo nuovo lavoro, al cinema dal 26 gennaio, e The Place del 2017 sono Valerio Mastandrea, nel film una delle anime suicidarie in cerca di un motivo per continuare a vivere, e Vittoria Puccini, personaggio più laterale, ma forse anche più sviluppabile narrativamente in futuro. Il potenziale per rendere Il primo giorno della mia vita una serie, infatti, un po’ com’è stato per Suburra, ci sarebbe. Ma questa è o sarebbe un’altra storia. Ora pensiamo alla sala cinematografica, dove grazie alla recitazione compassata di tutti gli interpreti, senza picchi né grida, le emozioni arrivano comunque allo spettatore, attraverso una coralità di elementi tecnici e artistici perfettamente amalgamati dal regista.
Genovese utilizza un linguaggio d’immagini solidissimo, ambienta la storia in una Roma centrale, tra i dintorni della Stazione Termini e piazza della Repubblica, e anziché banalizzarla racconta la città come una metropoli piovosa, di neon, sfocature e muri scrostati dal tempo. Il rifugio per queste persone, un piccolo hotel invisibile, rispetta un concept scenografico senza tempo, trasversale, con pareti tappezzate di vecchia carta da parati e fotografie, piramidi di televisori catodici che mettono in onda ricordi degli ospiti, e tulipani a decorare di vita ogni singola stanza.
Ogni personaggio a modo suo è un vinto (da sé stesso). In ognuno di loro alberga il conflitto profondo, silenzioso e quasi inafferrabile di un suicida che ha la possibilità di ritornare sui suoi passi, in uno spazio sospeso e inventato di sana pianta da Genovese. Ci sono: Margherita Buy, con i toni pacati ma pungenti di una rabbia antica e dolorosa; Sara Serraiocco in carrozzina a rimuginare sul passato; il giovanissimo Gabriele Cristini, bambino youtuber con un grande fardello da sopportare; e poi Mastandrea a completare questo piccolo limbo. Seppur tratto dall’omonimo romanzo del regista, pubblicato nel 2018 e edito da Einaudi, Il primo giorno della mia vita viene da un’idea di lampante originalità che per certe assonanze e sintonie del racconto ci riporta a titoli come Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli, 21 grammi di Alejandro González Iñárritu, La vita è meravigliosa di Frank Capra, come pure al Christmas Carol di Dickens.
Genovese ci parla del tempo che porta via il dolore, o dell’abituarsi ad esso coltivandolo, per finire prima o poi in frantumi, o in alternativa elaborandolo, per tornare a vivere dopo la sopravvivenza a un lutto. Riflette sulla nostra sostituibilità nel mondo, e persino sulla maternità, ma in una prospettiva molto aperta, modernissima, e nel suo piccolo, perché no, rivoluzionaria. Ma soprattutto tesse una filosofia positiva intorno alla nostalgia della felicità, come vero motore per cercarla, e per trovarla nel futuro.
di Francesco Di Brigida