Nope
Paola Casella recensisce "Nope", il terzo lungometraggio del regista statunitense Jordan Peele, in uscita nelle sale italiane il prossimo 11 agosto.

Il principale indizio di senso di Nope
è il poster giallo che OJ Haywood tiene appeso sulla parete del suo
ranch: Non predicare… spara!,
esordio alla regia di Sidney Poitier, interpretato accanto a Harry
Belafonte. Il film è del 1972 e Poitier e Belafonte, compagni nelle
battaglie per i diritti civili e testimonial dell’impegno black,
erano i primi in una certa misura accettati dal pubblico white. Non
predicare… spara! è un western, come lo è Nope:
o meglio, è un tentativo, da parte di un regista afroamericano, di
impossessarsi di un genere che aveva codificato cinematograficamente
la mitologia americana confinando ai margini le minoranze non
caucasiche.
Nei western pre-Settanta gli afroamericani erano
rari, in ruoli subordinati e ininfluenti: servitori, gregari, figure
di passaggio. L’eroe a cavallo era immancabilmente bianco,
prevalentemente wasp. A questo reagiva Poitier nel 1972, e a questo
reagisce Jordan Peele 50 anni dopo, creando una controepopea che si
riappropria di un ruolo leggendario del western tradizionale, quello
del cowboy solitario e silenzioso. E Peele ci aggiunge anche un
excursus nella fantascienza, altro genere dal quale gli afroamericani
sono sempre stati esclusi, e con il quale un regista ebreo americano,
quello Steven Spielberg più volte omaggiato in Nope,
si è cimentato con lo stesso risultato: entrare in un’arena
iconica dell’America anglosassone e protestante, facendo di Richard
Dreyfuss (e di un regista francese) i suoi insoliti eroi.
Ecco
allora che anche la trama parallela, che riguarda lo scimpanzé
omicida e appare scollegata dalla vicenda principale, assume un senso
più chiaro: la “scimmia ammaestrata” dice basta al suo ruolo
“stepin fetchit” in una
sitcom mainstream e bianca, in cui anche il bambino asiatico è un
oggetto di scena e il piccolo attore afroamericano menzionato da
Emerald, la sorella di OJ, è stato rimosso. E Nope
dice basta ad una storia del cinema in cui l’eroe nero a cavallo di
Eadweard Muybridge non aveva diritto ad avere un nome.
di Paola Casella