Non aprite quella porta
La recensione di Non aprite quella porta, di Tobe Hooper, a cura di Gianlorenzo Franzì.
Per quanto The Texas Chainsaw Massacre, da noi Non Aprite Quella Porta, sia unanimemente considerato un capolavoro assoluto, c’è da dire che il film di Tobe Hooper è forse però in assoluto poco considerato, o per lo meno non quanto altri vertici massimi del cinema: l’opera del 1974 è invece un perfetto equilibrio tra cinema underground, sperimentalismi, accenni da mockumentary, tutti frullati insieme apparentemente con furore anarchico, invece dosati alla perfezione sotto un vestito brutto sporco e cattivo.
La ghettizzazione (involontaria?) deriva senza dubbio dal suo essere visivamente respingente: nonostante sia conservato nella collezione permanente del Museum od Modern Arts di New York, i suoi 83 minuti non sono assimilabili alla faciloneria sanguinolenta di tanto cinema horror-trash, ma una macabra visione capace di coinvolgere tutti i sensi dello spettatore -chi non ha sentito l’odore di pelle secca e ossa vecchie nello studiolo di lavoro del buon vecchio Leatherface?- e insieme più campi dell’arte visiva. La famiglia di assassini cannibali che prende da lontano le suggestioni di Ed Gein non lo fa con la perfezione simmetrica de Il silenzio degli Innocenti né con la pulizia in bianco e nero di Psycho: no, Non Aprite Quella Porta possiede una fisicità asfissiante che viene sbattuta con violenza in faccia e nello stomaco di chi guarda, mentre alcune sequenze apertamente grottesche sembrano mettere in scena una vistosa teatralità narrativa che amplifica ancora di più la follia dell’insieme.
Alla fine, è solo la furibonda mattanza sui corpi e l’insistenza quasi morbosa sull’omicidio come atto puro di esecuzione meccanica a far sì che il film sia dichiarato horror: ma in realtà gli Stati Uniti raccontati da un Hooper mai più così ispirato sono quelli del Watergate, sono la nazione uscita a brandelli dalla tragedia irreparabile del Vietnam, sono il luogo dove la purezza irreale nella quale sono cresciuti i ragazzi fino agli anni 70n è crollata. Tutto sotto la modernità di sguardo del regista e la sua consapevole manipolazione dei meccanismi della tensione: non ultima, l’invenzione del citato Leatherface, primo vero esempio di babau postmoderno che non ha bisogno né vuole schemi psicologici razionali per uccidere, assassino della farlocca purezza statunitense che ancor prima di Freddy Krueger o Michael Myers sposta il cinema a stelle e strisce in territori prossimi al fantastico, seminale e sbalorditivo -gli ultimi minuti, l’inseguimento di Sally definitivamente persa nella follia, è un’invasione dello schermo sublime e anarchica, suggellata da quell’immagine pura e spaventosa e delirante del suo assassino con la motosega brandita e alzata al cielo.
di Gianlorenzo Franzì