Megalopolis

La recensione di Megalopolis, di Francis Ford Coppola, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

Megalopolis, di Francis Ford Coppola, distribuito da Eagle Pictures, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:

«A 85 anni Francis Ford Coppola non smette di sperimentare e di cercare nel cinema lo strumento ideale per dare forma alla sua creatività: con Megalopolis usa la storia dell’antica Roma (i personaggi si chiamano Catilina, Cicerone, Clodio, Crasso) per riflettere sui nostri difetti (esibizionismo, avidità, doppiezza), mescolando digitale e analogico, corse delle bighe e architettura green, alla ricerca di un cinema che sappia ancora lasciarci a bocca aperta».

La recensione
di Gianlorenzo Franzì

La storia del cinema (e della relativa critica), anche quella più recente, è piena di film incompresi o fraintesi, che riscontrano poca fortuna nel recensore e ancora di meno nel pubblico: ma in realtà sono opere che hanno bisogno di qualche sguardo in più, di un approccio più mediato, o probabilmente così grandi che nel loro essere bigger than life non riescono a rispecchiarsi nella maggiorparte di chi le guarda. Esondando nel futuro.

Megalopolis è così: un po’ come Babylon di Damien Chazelle -uno dei più frastornanti casi di sottovalutazione degli ultimi anni-, l’opera di una vita di Francis Ford Coppola è stata sbertucciata fin dal suo trionfale (forse troppo) esordio sulla Croisette. Mentre invece è un film totalizzante, immenso, spiazzante. È uno di quei film che non guardano al presente ma costruiscono il futuro con le immagini del passato, cercando di non scalfirlo, quel passato a cui si rivolge come ad un moloch, e nel frattempo erigendo un monumentum aere perennius che in futuro rimarrà nella memoria a preservare la memoria.

E dire che c’è tutto il cinema di Coppola più celebrato: la saga familiare, i richiami al classico, le ossessioni per la superficie delle immagini, la memoria, tutti elementi frullati insieme con un’esuberanza visiva incontenibile, quasi artificiosa, se non fosse che è noto a tutti la furia primordiale e istintiva con la quale il suo autore si è gettato nella sua direzione.

Megalopolis è purissima pop art, nel senso più stretto e largo del termine: arte creata con gli elementi della cultura popolare ma nello stesso tempo sovversiva nella sua grandiosità ostentata, tutta tesa nel raccontare il degrado, lento e inesorabile, di una società auto-fagocitatasi nel capitalismo entropico che ha essa stessa, consapevolmente, creato.

Megalopolis sono le immagini che si sovrappongono l’una con l’altra, si intrecciano e si sfaldano per poi ricomporsi in un unicum che tenta di racchiuderle tutte per trovargli un senso, addirittura (ma se ci si mette in gioco con la pop art, non si deve arretrare davanti all’improbabile) trasfigurando le modalità estetiche e produttive di quello che oggi rappresenta l’unica strada all’epos moderno ovvero i film Marvel.

Ecco: Megalopolis entra in tutto questo come un’astronave si lancia in un buco nero, giocando con l’altra ossessione di Coppola, ovvero quella per il Tempo, che si intreccia anzi diventa la base su cui lo Spazio stesso costruisce il suo corollario.

Siamo in piena estasi retrofuturista: un’orgia di immagini certo compiaciuta ma che nella sua furia travolge tutto e tutto ingloba. Non c’è errore nel voler dire che questo sia l’atto d’amore estremo di Coppola per il cinema, anzi per la sua Teoria del Cinema che passa attraverso la superficie di ciò che si mostra.

Non voglio che i miei pensieri vengano intaccati dal Tempo”, dice Catilina (Adam Driver), urlando in faccia allo spettatore il nucleo emotivo del film. Distruggere per ricostruire, con la preoccupazione di non distruggere ma preservare. Non c’è niente di nuovo, quindi, in questo film pantagruelico e sovrabbondante: niente che il regista non abbia già espresso in Peggy Sue si è Sposata, o in Dracula, o in Twixt, ovvero la sua spasmodica ricerca per dare movimento -e non corpo- all’idea, per renderla mobile, e quindi fruibile, e quindi eterna, anche nonostante il trascorrere del Tempo.

Le immagini non sono che il frutto di questa unione, immagini che non si preoccupano di raggrumare lo sporco o il vacuo, per costruire ciò che rimane. Cioè, alla fine, il Cinema.


di Gianlorenzo Franzì
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