La storia di Souleymane
Le recensioni di La storia di Seouleymane, di Boris Lojkine, a cura di Francesco Di Pace e Marco Lombardi.
La recensione di
Francesco Di Pace
Immaginiamo La storia di Souleymane come un seguito ipotetico di Io Capitano: un ragazzo proveniente dalla Guinea riesce come tanti dopo mille difficoltà ad arrivare in Francia, Parigi. Qui si mette a fare il rider, un po’ come il protagonista del film Anytime Anywhere, anche lui con mille difficoltà, prendendo in subaffitto l’account di una app di consegne di un suo amico che gli chiede “solo” la metà del suo guadagno. Intanto il nostro Souleymane si prepara al colloquio che dovrà sostenere per ottenere il permesso di soggiorno, e imbeccato da uno di quei faccendieri connazionali che girano attorno ai tanti disperati come lui, cerca di imparare a memoria la “pappardella” che recita di “guerre, carcere, torture subite, pericolo di morte etc”, che dovrebbe aiutarlo nella richiesta di asilo politico.
Al suo terzo film di finzione Lojkine, che viene anche dal documentario e si vede, non vuol negare ovviamente la veridicità delle tante richieste di asilo, ma solo constatare la condizione di vittime, da parte di alcuni di loro, in un mercato alimentato spesso anche da loro compaesani che lucrano sulle loro spalle. Il film (premiato a Cannes 2024 come migliore regia in Un certain regard) in questo è davvero preciso e spietato: sostenuto dal ritmo incalzante di un montaggio che valorizza un solido lavoro registico fatto di pedinamento ossessivo, tutto camera a mano, sul corpo del protagonista. Niente di nuovo forse, ma il tutto con un enorme valore produttivo e un notevole lavoro sul casting (quasi tutti attori non professionisti compreso il protagonista), tipici per un sistema di cinema, quello francese, abituato più del nostro ad affrontare in maniera credibile tematiche e situazioni legate all’immigrazione.
E nella prima parte del film assistiamo al pedalare senza soste del ragazzo, alla sua paura costante dei controlli della polizia, alla disperazione del riuscire a trovare un posto dove dormire la sera, alla sua ricerca dei soldi per pagare i documenti da presentare al colloquio: un’odissea avvincente che dura due giorni nel corso della quale si partecipa col fiato in gola alle vicende del nostro, ci si indigna il giusto, e si spera che tutto finisca per il meglio.
E se si ha la pazienza di aspettare, si arriva agli ultimi venti minuti che valgono tutto il film. Souleymane arriva finalmente al colloquio nell’ufficio per rifugiati politici: l’impiegata è gentile ma inflessibile, la storiella imparata male a memoria dal ragazzo è la stessa che lei ha sentito da altri disperati come lui e così lo spinge ad essere sincero, a ritrovare dentro se stesso la forza di raccontarsi. Assistiamo così, in un lungo piano sequenza che è valso all’esordiente Abou Sangare il Premio come miglior attore, alla commovente confessione di Souleymane che finalmente racconta senza pudore i veri motivi per cui un ragazzo come lui finisce nelle nostre strade: la povertà, la sfortuna, una madre gravemente ammalata, ma anche la semplice speranza di un futuro migliore. Basterà questa sincerità a garantirgli una nuova vita?
La recensione di
Marco Lombardi
Il documentario non è garanzia di verità, anche quando usa come interpreti gli stessi soggetti della storia (vera) che intende raccontare: la macchina da presa, infatti, può giocare dei brutti scherzi, inducendo anche i non attori ad auto interpretarsi, invece di essere.
Quando però i filtri sociali sono pochi, ed è forte la necessità di urlare “anche io ci sono”, la verità giunge al cuore dello spettatore, netta e intensa. È quello che succede ne La storia di Souleymane, il cui protagonista racconta con sincerità, e grandissima dignità, il suo tentativo di ottenere il diritto di asilo a Parigi imparando a memoria una finta storia da profugo che gli dovrebbe valere il diritto di rimanere. Ma come fa un non attore a recitare davanti a quelle autorità che dovranno decidere del suo futuro?
Nascono qui, più che dal racconto drammatico della sua vita da rider (costretto com’è a pagare il pizzo a uno sfruttatore, e passare le giornate a tollerare dei clienti serpenti, e inseguire autobus che non lo aspettano), le premesse dei dieci minuti di applausi in sala, alla proiezione ufficiale. Forse il film presta al fianco a un pizzico di propaganda, perché in antitesi a questo caso d’intelligente umanità da parte dell’amministrazione, chissà quanti altri saranno stati di segno contrario, ma pazienza: La storia di Souleymane è comunque un sano e necessario inno alla speranza dell’uomo nell’uomo, di cui oggi abbiamo un immenso bisogno.
di Francesco Di Pace e Marco Lombardi