Invelle

La recensione di Invelle, di Simone Massi, a cura di Andrea Vassalle.

In un cortometraggio del 1996, intitolato Niente, Simone Massi si era prefisso l’idea di delineare il nulla, dilatando l’istante di un battito di ciglia di un uomo coricato in attesa del sonno, attraverso immagini annebbiate, quasi dissolte. Per il primo lungometraggio, presentato nella sezione Orizzonti dell’80° edizione del Festival di Venezia, ha scelto invece come titolo Invelle, che dal dialetto marchigiano è traducibile con “in nessun luogo”. Sono parole che accompagnano il viaggio e l’anima racchiusa nel suo cinema, che rappresenta “il tentativo di raccontare il niente”, dando forma ai non luoghi della memoria, del sogno, dei ricordi. Storie impercettibili che si riflettono nei volti e nelle mani di personaggi inafferrabili, nei boschi e nei campi di una terra alimentata da un sospiro ancestrale. È un lavoro di costante sottrazione, a partire dalla tecnica di disegno composta da “graffi”, che analogamente alla scultura libera l’immagine, la riporta alla luce e la disvela al nostro occhio.

Eppure in quel niente Simone Massi ritrova il tutto e in quella sottrazione si nasconde l’interezza di un sentimento e di uno sguardo. Uno sguardo che in Invelle attraversa gran parte della storia del Novecento italiano, dalla Grande Guerra al Fascismo e alla Resistenza, dal dopoguerra agli anni di piombo e alla morte di Aldo Moro. A essere protagoniste però sono sempre le Marche, le campagne di Pergola, le terre in cui Massi è nato e a cui appartengono la sua famiglia, i suoi ricordi, il suo presente e la sua visione sul mondo, in quello che è un altro dei non luoghi su cui si è riversata la Storia. Un susseguirsi di reminiscenze, di voci, di pensieri che rischiano di svanire nell’oblio e che riprendono vigore attraverso il racconto, visto dagli occhi di tre bambini di differenti generazioni, connesso dal fil rouge quasi letterale rappresentato dal personaggio di Zelinda (nome della nonna materna di Massi). Il bianco e nero dell’animazione, intramezzato da sparuti cenni di colore, viene squarciato dal rosso del sangue, dei frutti e soprattutto del foulard indossato da Zelinda, dando risalto alla sua presenza e al suo arco temporale. Segno distintivo e nodale della poetica dell’autore marchigiano e presente tramite uno o più inserti in molti suoi cortometraggi, il rosso esprime la connessione con il secolo scorso e il ritorno al passato, racchiudendo anima, lotta e speranza in un colore che irrompe nell’immagine e spesso sembra ravvivarla.

I grandi eventi della Storia sono frammentati e osservati attraverso piccole e intime storie in cui si specchiano. Storie di uomini, di mani contadine, di lavoro, di nascite e di lutti, ma anche semplici gesti e lievissimi momenti, brandelli di memoria che riaffiorano in un soffio di vita. Nel cinema di Simone Massi tutto è in costante movimento e le immagini compiono incessanti metamorfosi, come nuvole che si rincorrono, si sfaldano, creano nuove forme e giocano con la luce e le ombre. Nel loro fluire, le immagini contengono altre immagini, gli spazi nascondono nuovi spazi, mentre parole, voci e suoni modellano ciò che è invisibile, in una sinfonia visiva che sembra scaturire direttamente dal sogno. Non a caso spesso nei suoi racconti ricorre l’immagine dell’occhio, attraversato e oltrepassato dalle immagini, giungendo là dove convivono i ricordi, i pensieri e i sogni stessi. Ed è proprio lì che prende forma Invelle, in nessun luogo, che eppure è il luogo più prezioso. La visione diventa quindi una fuga, come per il bambino che scappa di casa con la voglia di salire su una collina per vedere per la prima volta il mare (riprendendo il cortometraggio Piccola mare), donando le stesse sensazioni di meraviglia, libertà e stupore.


di Andrea Vassalle
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