Invelle
Le recensioni di Invelle, di Simone Massi, a cura di Carmen Albergo e Andrea Vassalle.

La recensione
di Carmen Albergo
Italo Calvino avrebbe potuto affermare di Simone Massi, quanto affermato di Carlo Levi “la sua peculiarità sta in questo: che egli è il testimone della presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo”.
Come non pensare a Massi che “grato, torna con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato (…) a quella sua terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà (…) e subisce il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, ne sopporta il peso e il confronto”? Proprio nell’icastico prologo di Cristo si è fermato a Eboli, pare calato Invelle (che letteralmente significa “in nessun luogo”) esordio al lungometraggio del regista marchigiano, apoteosi di tutta la sua consolidata poetica.
Nel ritorno dei suoi temi portanti, sofferti e salvifici insieme, Invelle sembra proprio mut(u)are in immagini quel “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia”, sin dalla sinossi scritta con mano autobiografica dallo stesso Simone Massi, che trasfigura nella storia diegetica: “Nel 1918 Zelinda è una bambina contadina con la madre in cielo e il padre in guerra. Le tocca smettere l’infanzia e indossare la casa, i fratelli, la stalla e le bestie(…)”. Zelinda cresce e comprende la crudezza del mondo e di colpo la sua storia diventa quella di una intera comunità, che di generazione in generazione arriva al 1978 del rapimento Moro, fino ad Icaro, “bambino sognato”, perchè destinato a riscattare i sacrifici di una discendenza di uomini e donne da soma e carne da macello.
È la medesima infanzia che mette in scena Vermiglio di Maura Delpero, con cui Invelle dialoga non poco, quanto ad immobilità dell’universo contadino rispetto alla guerra e alla Resistenza, intrisi di patriarcato e maschilismo, quanto mai docile eppure fondamentalista, senza alcuna remissione di peccato, se non nella irrimediabile tenerezza della sorellanza e nell’istruzione, come espiazione e proiezione quasi insperata di un futuro comune. Con la questione della scolarizzazione, Massi circoscrive e traduce in dialoghi compiuti nel suggestivo melodico idioma dialettale, una preferenziale trattazione narrativa. La scuola, baluardo quasi utopico di difesa dai soprusi e cultura non violenta, è una chimera rispetto all’arrendevole e sottomessa solidarietà popolare e Icaro è proverbialmente “nato con le scarpe” , perchè dopo generazioni di miseria e sfruttamento per primo siede tra i banchi. Condotto a scuola in automoble, “salta cent’anni in un giorno solo”, come direbbe Tenco, “scalzando”, come suo padre in fabbrica, le sue radici.
In questa spirale, dunque, di memorie chiamate per nome, infanzie recise nelle tragedie di potere (già condanna d’autore di Marco Bellocchio con Rapito e attualizzata su grande schermo dallo stesso Massi ne La strada dei Samuni) si staglia e dilegua l’universo ieratico rurale, pasoliniana straziante bellezza del creato: le nuvole… e le mani, dischiuse nell’inimitabile stilema dello zoom in piano sequenza, metamorfizzano paesaggi – volti – segreti in un flusso continuo di coscienza, associazioni e autocitazioni (su tutte La memoria dei cani e Dell’ammazzare il maiale, falsariga su cui apre il film e conduce la colonna sonora del fuori campo, nonchè l’elegiaca Piccola mare). I palmi delle mani, geografie del destino, sono le tavole su cui la Storia raccontata dal regista graffia a sangue la vita degli ultimi, quelli la cui tragedia personale si perde col loro stesso sparire terreno e disgela nella memoria collettiva, spirito e sogno premonitore del passato, arcano risveglio, un animus loci, che di volto in volto, l’autore interpella: “Dove sei stato tutto questo tempo?”.
In nessun luogo, forse, ma sicuramente in viaggio. Quel “viaggio della collettività, più affascinante del viaggio dell’eroe”, cui accenna, sulle pagine di Cinecritica, Alice Rohrwacher (che ha molto in comune con l’onirico poetico di Massi) e pare quasi alludere proprio ad Invelle quando precisa il ricorso a mito ed eroe-protagonista per interrogarsi sul destino dell’umanità intera. Invelle amplifica per il grande pubblico in sala l’ineguagliabile cinema breve di poesia di Simone Massi, monito esemplare di volontà creativa. L’epica delle piccole cose esplode sul grande schermo ricca, densa e feconda, mai così vitale nel manifestarsi come quella grammatica di prefigurazioni archetipica, teorizzata da Pasolini in Empirismo eretico, che paventava nella genesi dell’animo umano stesso, un farsi Cinema ancestrale di incondizionata Libertà.
La recensione
di Andrea Vassalle
In un cortometraggio del 1996, intitolato Niente, Simone Massi si era prefisso l’idea di delineare il nulla, dilatando l’istante di un battito di ciglia di un uomo coricato in attesa del sonno, attraverso immagini annebbiate, quasi dissolte. Per il primo lungometraggio, presentato nella sezione Orizzonti dell’80° edizione del Festival di Venezia, ha scelto invece come titolo Invelle, che dal dialetto marchigiano è traducibile con “in nessun luogo”. Sono parole che accompagnano il viaggio e l’anima racchiusa nel suo cinema, che rappresenta “il tentativo di raccontare il niente”, dando forma ai non luoghi della memoria, del sogno, dei ricordi. Storie impercettibili che si riflettono nei volti e nelle mani di personaggi inafferrabili, nei boschi e nei campi di una terra alimentata da un sospiro ancestrale. È un lavoro di costante sottrazione, a partire dalla tecnica di disegno composta da “graffi”, che analogamente alla scultura libera l’immagine, la riporta alla luce e la disvela al nostro occhio.
Eppure in quel niente Simone Massi ritrova il tutto e in quella sottrazione si nasconde l’interezza di un sentimento e di uno sguardo. Uno sguardo che in Invelle attraversa gran parte della storia del Novecento italiano, dalla Grande Guerra al Fascismo e alla Resistenza, dal dopoguerra agli anni di piombo e alla morte di Aldo Moro. A essere protagoniste però sono sempre le Marche, le campagne di Pergola, le terre in cui Massi è nato e a cui appartengono la sua famiglia, i suoi ricordi, il suo presente e la sua visione sul mondo, in quello che è un altro dei non luoghi su cui si è riversata la Storia. Un susseguirsi di reminiscenze, di voci, di pensieri che rischiano di svanire nell’oblio e che riprendono vigore attraverso il racconto, visto dagli occhi di tre bambini di differenti generazioni, connesso dal fil rouge quasi letterale rappresentato dal personaggio di Zelinda (nome della nonna materna di Massi). Il bianco e nero dell’animazione, intramezzato da sparuti cenni di colore, viene squarciato dal rosso del sangue, dei frutti e soprattutto del foulard indossato da Zelinda, dando risalto alla sua presenza e al suo arco temporale. Segno distintivo e nodale della poetica dell’autore marchigiano e presente tramite uno o più inserti in molti suoi cortometraggi, il rosso esprime la connessione con il secolo scorso e il ritorno al passato, racchiudendo anima, lotta e speranza in un colore che irrompe nell’immagine e spesso sembra ravvivarla.
I grandi eventi della Storia sono frammentati e osservati attraverso piccole e intime storie in cui si specchiano. Storie di uomini, di mani contadine, di lavoro, di nascite e di lutti, ma anche semplici gesti e lievissimi momenti, brandelli di memoria che riaffiorano in un soffio di vita. Nel cinema di Simone Massi tutto è in costante movimento e le immagini compiono incessanti metamorfosi, come nuvole che si rincorrono, si sfaldano, creano nuove forme e giocano con la luce e le ombre. Nel loro fluire, le immagini contengono altre immagini, gli spazi nascondono nuovi spazi, mentre parole, voci e suoni modellano ciò che è invisibile, in una sinfonia visiva che sembra scaturire direttamente dal sogno. Non a caso spesso nei suoi racconti ricorre l’immagine dell’occhio, attraversato e oltrepassato dalle immagini, giungendo là dove convivono i ricordi, i pensieri e i sogni stessi. Ed è proprio lì che prende forma Invelle, in nessun luogo, che eppure è il luogo più prezioso. La visione diventa quindi una fuga, come per il bambino che scappa di casa con la voglia di salire su una collina per vedere per la prima volta il mare (riprendendo il cortometraggio Piccola mare), donando le stesse sensazioni di meraviglia, libertà e stupore.

di Carmen Albergo e Andrea Vassalle