La stanza del figlio

La stanza del figlio

La stanza del figlioIl dolore unisce. No, il dolore divide. Così suggerisce Moretti nel suo nono film, il più emozionante e il più maturo della sua filmografia.

Una famiglia unita, padre (Nanni Moretti), madre (Laura Morante), figlia (Jasmine Trinca), figlio (Giuseppe Sanfelice), tutte le mattine seduti insieme a colazione, tutte le sere riuniti, ancora, attorno alla tavola imbandita per la cena. Il padre psicoanalista, la madre lavora nel mondo dell’arte; i figli, due “bravi” adolescenti, con la passione per lo sport e i primi innamoramenti.
A turbare la quiete familiare l’improvvisa, tragica e accidentale morte del figlio.Elaborazione del lutto.
E la divisione comincia.

Il tranquillo professionista aggredisce la disperazione buttandosi nella mischia del lunapark, tra luci, rumori e montagne russe come a scuotere il proprio essere. Frulla la propria angoscia, la propria disperazione in un rocambolesco gioco forzato di emozioni e colori, continua a lavorare con i suoi pazienti (che poi lascerà, perché incapace di distinguere le loro angosce dalle proprie); la madre si dispera, lascia il lavoro, abbandona il proprio corpo straziato dalla disperazione. La figlia. L’unica che cerca – disperatamente – la normalità. Con la consapevolezza di essere, ormai, l’unico collante per ricomporre una famiglia spezzata. Ma il suo è un vano tentativo. E, pian piano, la ragazza mite e tranquilla, diventa irascibile, e, durante una partita di pallacanestro, la goccia fa traboccare il vaso, quel vaso che fino ad allora aveva cercato equilibrio, si rovescia e si rompe. Aggredisce un’avversaria e viene squalificata. Come a dire: mai tradire le proprie emozioni!

Il film si apre e si chiude in riva al mare, uno dei grandi protagonisti de La stanza del figlio, un luogo dove tutto sembra essere più luminoso e dove l’orizzonte – seppur lontano – sembra raggiungibile. Il finale è aperto, ognuno può vedere una soluzione possibile, proprio in riva al mare, guardando oltre la lontana linea nera.
La stanza del figlio diverso dagli altri otto film di Moretti? Sicuramente. Ma solo in apparenza. Non si parla apertamente di politica, non c’è un netto ed evidente autobiografismo, non c’è una smaccata denuncia sociale. Non c’è più Michele Apicella. Ma c’è tutto il Moretti possibile. Che in questo film preferisce suggerire più che dire.
Chi non riesce a scorgere nei pazienti dello psicanalista “proiezioni” morettiane? I loro tic, le nevrosi, le manie, le angosce esistenziali sono un po’ lo specchio e un po’ la somma del “precedente” Moretti. Non per niente sono protagonisti, soprattutto, della prima parte del film, prima del lutto, della morte, del dolore. Dell’evento, cioè, che cambia il corso delle cose.

Il percorso che Moretti/psicoanalista compie per andare dalla casa allo studio, è un percorso fatto di porte che meticolosamente vengono aperte. Casa e studio fanno parte dello stesso appartamento. E’ dopo il tragico evento che Moretti/Giovanni “esce” e percorre un’altra strada. Un percorso differente che compie non solo Moretti/psicoanalista, ma anche Moretti/regista.

Cristina Scognamillo

La quotidianità e la fragilita della vita

La cosa che più impressiona in La stanza del figlio è la rappresentazione della quotidianità, vista nella naturalezza dei piccoli avvenimenti, dei tic privati, delle complicità familiari, nel fluire calmo dei ritmi casalinghi (quanti risvegli, quante colazioni, quanti pranzi si vedono nel film), ma poi anche nella sua spaventosa, irrimediabile fragilità. Una calma piatta, quasi sonnambolica, vissuta sull’orlo del precipizio e interrotta da un contraccolpo improvviso, dall’irruzione di un dolore personale e insieme metafisico, da un evento come la morte che tutto sconvolge e mette in discussione.
La quotidianità diventa allora uno spazio vuoto da riempire, la normalità ingiustificabile, la bella casa piena di libri non offre più nessuna pace, le crepe (anche quella di una tazzina) cominciano ad essere insopportabili, e pure il lavoro appare inutile, addirittura dannoso, per sé e per gli altri.

Con La stanza del figlio Nanni Moretti continua un discorso iniziato già dai suoi primi film, rendendolo però più chiaro ed estremo. Anche in La messa è finita c’era la presenza della morte e del lutto, ma se lì c’era ancora la messinscena (e quindi l’esteriorizzazione, il controllo dell’evento) qui c’è, per usare un termine psicoanalitico, l’elaborazione interiorizzata del lutto; in Caro diario la componente autobiografica, sempre presente, era addirittura evidenziata dalla struttura diaristica del racconto, qui il coinvolgimento personale è dato da un vissuto del dolore che lascia inebetiti. Altro che minimalismo. Da questo punto di vista, e sperando di non essere frainteso, dico cheLa stanza del figlio è un film porno (non a caso un tipo di cinema spesso citato nel film), perché impudico nel rappresentare senza alcuna mediazione il tabù e la dinamica della morte e del dolore: e in questo sono davvero equivalenti la scena, girata con la macchina ferma e in tempo reale, dei necrofori che con i loro arnesi sigillano la bara dove è custodito Andrea e la scena di Giovanni che qualche ora dopo, da solo, cerca di stordirsi sulle giostre del Luna Park.

Film intenso ed essenziale, claustrofobico eppure pieno di movimenti interni, lineare nella evoluzione del racconto e spezzato da fughe rapide e flash (le parentesi professionali di Giovanni, piscoanalista, alle prese con la sofferenza dei suoi pazienti), fino al bellissimo finale, dove Moretti trasforma un film programmaticamente esplicito in un film trattenuto e “aperto”. Il velleitario “ritornare indietro” annunciato da Giovanni alla moglie si traduce, dopo un viaggio nella notte e davanti a una linea di confine, in un umanissimo “ripartire da zero”.

Piero Spila

La compattezza del racconto e lo splendore del vero

Una bella famiglia della media borghesia professionale. Lui è uno psichiatra, con studio ben avviato, lei dirige una piccola casa editrice, una di quelle aziende che sfornano raffinati cataloghi per belle mostre. Due figli, in buona salute e appassionati di sport, la ragazza gioca a pallacanestro, il ragazzo si diletta di pesca subacquea.
Il clima è sereno, genitori e figli si parlano, fanno gite assieme, quasi non hanno segreti.
Fuori, una tranquilla città di provincia affacciata su un porto operoso. Di colpo la tragedia: una decisione azzardata nell’inseguire un pesce e il ragazzo muore d’embolia.
Tutto si spezza, non alla maniera del cinema hollywoodiano o dei brutti film italiani con sfoggio d’alcool, draga e avventure extraconiugali; sono i rapporti a spezzarsi. si smette di parlare, non si riesce più a lavorare, si diventa violenti sul campo di gioco. E’ una crisi profonda in cui il lutto non riesce ad essere elaborato e il mondo perde di senso.
Solo l’arrivo di una fidanzatina nascosta dello scomparso e la decisione, istintiva e illogica, di “dare un passaggio” a lei e al suo probabile nuovo amore sino al confine con la Francia, riesce a far tornare il sorriso per un attimo. Un attimo, perché nell’inquadratura seguente, l’ultima del film, i tre superstiti sono nuovamente soli su una spiaggia deserta, ciascuno assorto in un privato, doloroso percorso esistenziale.

Il nuovo film di Nanni Moretti ha sorpreso molti critici che hanno parlato di svolta rispetto al clima ironico delle opere precedenti. Forse non avevano capito il dolore che traspariva – magari ricoperto d’autoironia – da ogni opera di un regista che si conferma il più importante uomo di cinema italiano di questi anni. Ci sono voluti quei film “sociali” per arrivare alla maturità de La stanza del figlio. Come, poi se fosse possibile distingue fra i sentimenti e ciò che si pensa in politica, fra l’io individuale e quello pubblico. Una divisione che, forse, ha senso in chi fa della politica una professione, non certo nell’uomo comune, nell’essere umano normale.

Il film è straziante, bellissimo e costruito con una raffinatezza incredibile. Il ritmo del crescere dei sentimenti, la direzione degli attori, il taglio delle inquadrature, tutto sa di perfezione. Le sbavature sono minime – il paziente ossessionato dal sesso facile e dai film porno che dà in escandescenze e devasta lo studio dello psichiatra – la compattezza del racconto ricorda il grande cinema, ad iniziare da quello diEric Rohmer. Quello splendore del vero, di cui parlava Roberto Rossellini, che sa render poetica e straordinariamente drammatica la vita di tutti i giorni.

Umberto Rossi


di Redazione
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