La prima notte di quiete
La recensione di La prima notte di quiete, di Valerio Zurlini, a cura di Guido Reverdito.
Figlio di un eroe della seconda guerra mondiale (anche se lui ci tiene poco a rimarcare la parentela così come a ricordare di aver pubblicato un volumetto di versi dedicato a una sedicenne morta), Daniele Dominici arriva in una nebbiosa Rimini invernale per fare tre mesi di supplenza nel liceo locale. Più incline alla passione per i tavoli da gioco che alla didattica, quasi subito si invaghisce ricambiato di Vanina, la più bella e misteriosa in una classe agitata dai venti di ribellione che da anni stanno sconvolgendo scuole e università a livello globale.
Tra i due e la fuga verso una felicità impossibile ci sono però un serie di ostacoli non da poco: se Vanina non è padrona della propria vita perché ha una torbida relazione con Gerardo, un bullo dal cuore di tenebra che gira in Lamborghini e sembra navigare nell’oro, oltre a essere manovrata da una madre rancorosa con alle spalle un sordido passato sulla strada, da parte sua Daniele ha da fare i conti non solo coi propri demoni interiori, ma anche con un matrimonio al capolinea e una moglie-amante ancora più sola e disperata di lui.
Una relazione a dir poco difficile quella tra lui e la misteriosa Vaniva, proiettata sullo sfondo friabile della banda di misfit cui Daniele finisce per aggregarsi (un medico non troppo ligio al giuramento di Ippocrate, una tossicodipendente che in città tutti chiamano Cocaina, un agente immobiliare con la vocazione del lenone e lo stesso Gerardo), coniugando il proprio male di vivere con l’amoralità che regna sovrana nel gruppo.
Un cocktail corrosivo destinato a implodere in un finale tragico nel quale il protagonista trova finalmente pace in quella che il titolo stesso definisce la prima notte di quiete (un verso scippato a una lirica di Goethe). Ovvero la morte, quella lunga notte in cui finalmente si dorme senza né sogni né tanto meno incubi.
Esistono film perfetti destinati a durare nel tempo senza invecchiare mai? Al netto di quelli che possono essere i più che opinabili criteri per attribuire a un determinato titolo un’etichetta tanto ambiziosa, la risposta potrebbe essere “sì”. E se una categoria del genere la si potesse immaginare come pensabile e credibile, L’ultima notte di quiete di Valerio Zurlini (riproposto nelle sale in questi giorni per celebrare i 120 anni della casa di produzione Titanus nella versione restaurata nel 2019 dall’Associazione Philip Morris Progetto cinema, in collaborazione con la stessa Titanus e con la Fondazione Scuola Nazionale di Cinema – Cineteca Nazionale) avrebbe tutte le credenziali necessarie per non sfigurare in quella speciale lista costellata di capolavori senza tempo.
In questo melodramma girato in una Rimini livida nel freddo astioso del suo inverno non c’è una sola componente che non funzioni alla perfezione: oltre agli esterni plumbei che fanno da correlativo oggettivo ai deserti interiori che sono l’anima di tutti i personaggi, c’è un protagonista (Alain Delon in quella che resta una delle sue interpretazioni più intense di sempre) con un passato misterioso alle spalle e un presente stropicciato di chi ha fatto anche fin troppo a cazzotti con la vita; c’è una relazione torbida con una ragazza che sembra tutto quello che non è e che si scopre un bignami di devianze assortite; c’è una sceneggiatura a orologeria capace di coniugare lo scavo minerario nell’intimo di ogni personaggio con l’analisi accurata dello stato del mondo in atto fatto con accenni repentini più efficaci di un trattato di sociologia; c’è il jazz algido e desolato di una colonna sonora (firmata da Mario Nascimbene, un habitué del cinema di Zurlini) che accompagna il protagonista all’appuntamento con la morte come se fosse un ronzio premonitore che ne annuncia l’arrivo infiltrandosi subdolo nel cervello dello spettatore; c’è una fitta serie di riferimenti colti alla letteratura (dal verso che dà il tiolo al film al nome di Vanina che richiama il racconto Vanina Vanini di Stendhal) e alla storia dell’arte (con Daniele che porta Vanina in gita a Monterchi e le illustra con concitata passione il celebre affresco La madonna del parto di Piero della Francesca); e infine c’è un cast straordinario che, solo in apparenza eterogeneo, trova invece un amalgama perfetto con Delon a fare il mattatore (in scena in tutte le sequenze e sempre con indosso un mitico cappotto di cammello di due taglie più larghe e un girocollo verde, entrambi indumenti di Zurlini stesso che il super divo francese gli chiese in prestito a inizio lavorazione continuando a indossarli a ogni ciak).
E pensare che il film, penultimo di Valerio Zurlini (che lo aveva pensato come terzo capitolo di una trilogia sui postumi delle disastrose avventure coloniali italiane in Africa orientale che avrebbe dovuto avere il tiolo de Il paradiso all’ombra delle spade) e suo più grande successo di pubblico e critica, ebbe una lavorazione travagliatissima: come ricordato in più di un’occasione sia da Giancarlo Giannini che da Renato Salvatori – il primo nei panni del medico amorale e il secondo in quelli dell’agente immobiliare con l’animo del lenone -, oltre che dal regista stesso, tra Zurlini e Delon fu rottura sin dai primi giorni di lavorazione. Al punto che da metà in poi i due comunicavano solo tramite l’aiuto regista e altre maestranze. Ma Delon, che al tempo de La prima notte di quiete non aveva ancora quarant’anni ed era nel pieno fulgore di una bellezza apollinea perfetta per regalare al suo personaggio i giusti toni dell’angelo caduto nel fango dei propri demoni interiori, amò moltissimo il film non ostante la relazione tempestosa con Zurlini sul set. Ed essendone anche il co-produttore con la Ttitanus Film, decise di intervenire in maniera radicale nella versione distribuita in Francia col titolo molto meno suggestivo di Le professeur; scorciato di 27 minuti e quindi mutilo di alcune scene cardine, questo snaturamento della sceneggiatura (che Zurlini aveva scritto con un gigante del settore del calibro di Enrico Medioli) non fece altro che creare ulteriore distanza tra i due. Finendo però presto nel dimenticatoio e senza riuscire a intaccare la purezza di un gioiello che resta una pietra miliare del cinema italiano degli anni ’70.
di Guido Reverdito