Le recensioni di L'orto americano, di Pupi Avati, a cura di Gianlorenzo Franzì e Paola Dei

Le recensioni di L'orto americano, di Pupi Avati, a cura di Gianlorenzo Franzì e Paola Dei.

La recensione
di Gianlorenzo Franzì

A conti fatti, su quarantatré film girati da Pupi Avati, ben dieci sono horror: come a dire che un quarto della sua carriera è stato dedicato alla paura, al mistero, ed è strabiliante anche considerando che nella percezione comune il buon Pupi non è legato al genere nonostante i risultati altissimi del suo cinema, sempre e comunque.

Probabilmente perché il suo horror (quello che si -auto-definisce gotico padano) è sempre sfumato, obliquo, laterale, e questo al netto di innegabili accelerate e virate verso il raccapriccio o lo spavento purissimo. L’orto americano è qui quasi come una summa: e non tanto perché riprende dei topoi a lui cari, pur presenti, quanto perché fa outing e dichiara un amore viscerale quanto proibito verso la morte. Ma attenzione perché non è necrofilia: è un declinare dolcemente, malinconicamente verso l’assenza, il passato, l’impalpabilità corporea che però diventa spirito opprimente.

Il giovane senza nome protagonista del film (interpretato benissimo da Filippo Scotti) trascorrerà la vita, anche a costo di andare da un continente all’altro, alla ricerca di una donna che non troverà mai, che forse è morta, che sicuramente non ricambia la sua passione; e nel farlo, porta con sé un piccolo quadro con le foto dei suoi parenti defunti, con cui lui parla. La morte non è quindi una passione ma una compagna: è l’accettazione ineluttabile della vita.

M c’è anche la follia, nell’Orto Americano: quella follia che per Avati è sempre stata l’unico modo per poter passare dal materiale al misterico, unico punto di contatto tra i mondi, che sono comunque entrambi oscuri e obliati.

È forse per questo che il film non poteva che essere girato in bianco e nero, per restituire quella zona d’ombra della quale il mondo del regista si è sempre impregnato, una dimensione liquida e lirica, ottundente e attutita, sospesa tra veglia e sogno, uno spazio liminare, di confine, nel quale però ogni violenza è possibile, è anzi dietro l’angolo. Perché la follia può essere buona e può essere cattiva: e se quella del giovane senza nome è la prima, quella dell’assassino è la seconda. È sempre questo bianco e nero (nello splendore di Cesare Bastelli, fedele direttore della fotografia di Pupi) che diventa limaccioso e perturbante quando sposta la trama in geografie quasi espressioniste, racchiuse in un liquido amniotico che sembra dare vita ma che all’improvviso può soffocare. Il film si srotola lieve e minaccioso, vero e proprio gioiello, uno dei più dolorosi ma anche magmatici, vertiginosi del suo autore: e diventa, come si diceva sopra, un punto fermo e anzi un puntello, per mostrare che Pupi Avati è ormai un vero e proprio classico vivente, e che il suo cinema non è (più) sogno, ma dolorosa allucinazione.

La recensione
di Paola Dei

Pupi Avati, nonostante l’età, firma e dirige una delle sue più suggestive opere e torna al genere horror con il quale iniziò la sua carriera, ma con molti anni di esperienza sulle spalle. Nel suo 43° film il cineasta bolognese riesce a conciliare gotico e romantico, generi con i quali ci siamo abituati a definire il cinema di Tim Burton. Con rara lucidità e un evocativo bianco e nero confeziona un’opera diversa, con atmosfere d’altri tempi nelle quali sembra fare una sintesi dei suoi ultimi lavori, a partire da Il signor Diavolo, per poi attraversare Lei mi parla ancora e arrivare a La quattordicesima domenica del tempo ordinario.

Presentato alla 81 Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche dal 6 marzo 2025, tratto dall’omonimo romanzo di Pupi Avati, che si conferma un fantastico narratore e affabulatore, sceneggiato insieme al figlio Tommaso, girato fra Italia e Stati Uniti, con la splendida fotografia di Cesare Bastelli, e la collaborazione di Sergio Stivaletti per un effetto speciale che non è stato rivelato e con la indovinata interpretazione di Filippo Scotti, nei panni di un giovane scrittore, che, dopo esser stato l’Alter ego di Paolo Sorrentino nel film É  stata la mano di Dio, si conferma un attore versatile, capace di entrare nella parte e incarnare perfettamente il nostro modo di percepire il protagonista, che, soprattutto in una scena girata in un tribunale, evoca per somiglianza, forse dovuta agli effetti speciali, il grande scrittore Franz Kafka. Un potente e inquietante parallelismo che accosta gli incontri surreali dei personaggi dello scrittore a quelli de L’orto americano che riflettono spesso lo sgomenti umano di fronte a un universo indifferente.

Avati sa decisamente costruire una storia con un potente sistema di simbolismi e significazioni, assecondando le esigenze narrative e il linguaggio allusivo del cinema. Nulla dunque di più riuscito, per un grande affabulatore, raggiungere quello che è per definizione il culmine del linguaggio cinematografico: l’affabulazione. Un contributo importante alla Storia del Cinema e una lezione di regia che entrerà certamente nel “per sempre”.


di Gianlorenzo Franzì
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