Il colore viola

La recensione di Il colore viola, di Blitz Bazawule, a cura di Andrea Bosco.

Torna al cinema, a circa 40 anni dal celebre adattamento per mano di Steven Spielberg, Il colore viola, rifacendosi questa volta non all’acclamato romanzo epistolare di Alice Walker, ma alla sua trasposizione broadwayiana del 2005, un’operazione già all’epoca piuttosto contestata, che finiva per accomodare, con risultati stridenti ed eticamente dubbi, una vicenda di violenza, sottomissione e abuso allo sgargiante formato del musical: scrupolo che non sembra toccare minimamente l’artista multimediale Blitz Bazawule, che si imbarca in un faraonico passaggio al grande schermo preoccupandosi soprattutto di riprodurre il brio e lo sfarzo dei numeri cantati e ballati, nella cui messa in scena si mostra indiscutibilmente a suo agio e che, per quanto altalenanti e sensibilmente brevi – 45 minuti complessivi, circa un terzo della durata del film – rimangono l’elemento più memorabile dell’insieme.

A funzionare meno è fondamentalmente tutto il resto, a cominciare dalla confezione fortemente patinata, caratterizzata dalla luminosissima fotografia di Dan Laustsen, che non si attenua neanche nei momenti più cupi, e dal ritmo, che nonostante le due ore abbondanti, pare affrettato, impaziente di liquidare velocemente gli episodi più intensi e problematici per scatenarsi con le canzoni: ne risente, quindi, la componente drammatica, inevitabilmente stemperata e semplificata, più vicina alle coordinate della letteratura rosa che al ritratto, sfaccettato e tutt’altro che compiacente, dei cambiamenti in atto nella comunità afroamericana nella prima metà del Novecento.

Non aiuta, poi, un cast che da una parte non brilla troppo per carisma – in primis la protagonista Fantasia Barrino, che si era già calata nei panni di Celie a teatro – e dall’altra, come nel caso della candidata all’Oscar Danielle Brooks, che interpreta Sofia, e di Colman Domingo, che riduce il già storicamente monocorde personaggio di Mister a una macchietta da cartone animato, si abbandona a un gigionismo sfrenato che può avere una certa efficacia sul palcoscenico, ma che nella dimensione filmica si fa, alla lunga, decisamente stucchevole.

Nel tentativo di assecondare e di non turbare troppo il pubblico più ampio possibile, Bazawule si accontenta di conferire alla sua versione de Il colore viola un’identità da edificante feel-good movie à la The Help, un esempio di cinema che vorrebbe ambire alla statura di classico ma che, nonostante le istanze contemporanee a base di emancipazione e di autodeterminazione che lo accompagnano, sembra già vecchissimo: ha ancora senso, ora che American Fiction di Cord Jefferson ha fatto saltare il banco con la sua sferzante satira sulla rappresentazione black e sulla sua necessità di aggiornarsi – aggiudicandosi, peraltro, quel posto d’onore nella stagione premi a cui questo film ha anelato invano –, proseguire su questa strada?


di Andrea Bosco
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