L’impero
La recensione di Frédéric Pascali, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a L'impero, di Bruno Dumont, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

L’impero, di Bruno Dumont, distribuito da Academy Two, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Sotto la superficie di esilarante parodia di fantascienza, declinata con lo stile stralunato e grottesco tipico dei suoi lavori e nei luoghi a lui sempre più cari, Bruno Dumont firma l’ennesimo film sulla condizione esistenziale dell’essere umano. La capacità e il coraggio di essere leggero, perfino demenziale di fronte alla complessità delle questioni in ballo, è il segno inconfondibile dell’intelligenza di un autore e del suo cinema».

La recensione
di Frédéric Pascali
Chissà quale sarebbe stato il pensiero di Martin Esslin, l’autore di The theater of the Absurd, nel visionare le alchimie narrative presenti nell’ultimo lavoro cinematografico di Bruno Dumont. Più Beckett che Ionescu, il teatro di fantascienza del regista francese è ambientato nella Côte d’Opale del Pese dei Lumi, in un villaggio di pescatori nella provincia settentrionale, affacciato sulle acque della Manica. Incuranti dei suoi abitanti, alcuni rappresentanti degli Uno, le forze del Bene, e degli Zero, le forze del Male capeggiate da Belzebù in persona, combattono tra loro per affermare il proprio potere e governare la Terra. La presenza di un bambino, il tanto atteso erede del Male, è il motivo principale del contendere.
Jony è il principe suo custode che lo difende dai tentativi di rapimento di Jane de Baecque, l’alfiere del Bene. Sono tutti alieni che sulla Terra operano coperti da sembianze umane, impadronendosi delle loro identità e restandone, tuttavia, in qualche maniera contaminati, fino a sviluppare le stesse attitudini. Come accade per i due acerrimi nemici, Jony e Jane, che, per dirla alla Jacques Breil, ben presto si attraggono e lasciano che i loro corpi esultino. Per poi ritrovarsi, forse riluttanti, a guidare le proprie armate in un apocalittico scontro finale, mentre gli umani, ignari del Destino che va compiendosi, si affidano a due strampalati e iconici ufficiali della Gendarmeria: il comandante Van der Weyden e il tenente Carpentier, parenti stretti dei personaggi che affollano le tavole dei Tintin di Hergé.
I richiami parodistici a Guerre Stellari, a Flash Gordon, a L’invasione degli Ultracorpi, ai costumi e alle scenografie di Melies, si affastellano, nel lavoro di Dumont, come balocchi disillusi ma, sono solo coreografie di un messaggio che punta diritto al cuore dell’essere umano.
Il Bene e il Male sono custodi di un animo destinato a essere da sempre ostaggio della sua fragilità, incompiutezza, consapevolezza del finito. È l’uomo di Montaigne, privo di certezze e punti di riferimento, è la nostra società schiava di un sistema numerico binario che ne gestisce ogni comunicazione e relazione, ogni afflato che conduce al centro di un qualche universo, qualsiasi fattezza esso abbia. L’Empire è una corsa al trotto, priva di enfasi, come quella degli Zero sui loro belli e maestosi Shire, che conduce in nessun posto speciale se non alla semplicità dell’esistenza di un piccolo villaggio di pescatori, ignari custodi della felicità.
Sono tutti eccellenti gli interpreti. Da quelli non professionisti, come Brandon Vlieghe e Julien Manier, a quelli di fama, come Lyna Khoudri, Annamaria Vartolomei, Fabrice Luchini, Bernard Pruvost e Philippe Jore.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua presentazione al Festival di Berlino 2024, L’impero è stato accolto piuttosto positivamente dalla stampa italiana.
Simone Emiliani, su Sentieri Selvaggi, inserisce il film all’interno della filmografia del regista, facendo tuttavia dialogare con l’immaginario tipico da cinecomics: «tra cielo e terra. Il cinema di Dumont gioca con i cinecomics ma in realtà condivide temi che appartengono al suo cinema come la ricerca dell’origine e la fine del mondo, i misteri della vita, dell’amore e della morte. Poi in L’impero spinge sull’acceleratore con il genere tra pianeti antagonisti, cavalieri dell’Apocalisse, raggi laser. Lo sguardo volge verso un tempo astratto, ma il riferimento rimanda all’estetica della versione cinematografica di Flash Gordon, anche nei colori appena accennati, nella mutazione dei corpi in atto, nella lotta tra Bene e Male qui rappresentati rispettivamente da luoghi come una chiesa e un castello». Gli fa eco Cristina Battocletti, che sulle pagine de Il Sole 24 Ore scrive che «a Bruno Dumont piace provocare con la sua maestria cinematografica, dimostrando ne L’impero di saperla esercitare anche in forma grottesca e senza rinunciare al perno della sua filmografia: la dualità e la contrapposizione tra il bene e il male».
Anche Adriano De Grandis entra in profondità della questione, scavando tra i vari strati del film e notando come si tratti di un’operazione più complessa di quanto possa sembrare: «mai come adesso L’impero sembra essere una matrioska di un’opera globale di un regista che svela, di film in film, un’infinita ripetitività delle argomentazioni, sulle quali spadroneggia da sempre la condizione esistenziale dell’umanità, perduta ciecamente nella necessità di un divino che ne riscatti la propria inutilità e al tempo stesso nella fondata rassegnazione che ciò sia illusorio». Alberto Crespi invece, su La Repubblica, esalta la deriva grottesca e divertita del cineasta francese, lodando il carattere più istrionico di questo autore. Afferma infatti il critico: «Bruno Dumont è uno strano regista e L’impero è di gran lunga il più strano dei suoi film. Dopo aver esordito con opere alquanto ruvide sulla provincia francese (Dumont viene dall’estremo Nord della Francia, tra Lille e il Pas de Calais) ha scoperto una vena comico-grottesca che in questo nuovo film esplode in una parodia con momenti di surreale genialità. […] Il risultato è un film volutamente sgangherato, con effetti speciali alla Mario Bava e momenti davvero spassosi. Se riuscite a sospendere l’incredulità, vi divertirete».
Giona A. Nazzaro, invece, sulle pagine di Film Tv prova ad allargare ulteriormente lo sguardo, facendo dialogare il film con riferimenti che spaziano anche al di là di quelli cinematografici: «lo scenario è la provincia francese cara a Dumont che conosciamo: un luogo ormai perfettamente identificato. Quella di P’tit Quinquin, di Giovanna d’Arco e di André Van Peteghem che se ne va in giro invocando «aperitif! Aperitif! ». Quella provincia francese è la Monument Valley di Dumont. L’impero, sin dal titolo, si presenta dichiarandosi come un film-mondo definitivo, il luogo-narrazione di un conflitto epocale fra civiltà avverse. Dumont è sempre stato un massimalista ironico, una sorta di Bernanos (la malinconia, la fede e la sfiducia nella creatura suprema di Dio, ossia l’uomo) e un satirista che torna sempre alla fonte di Bouvard e Pécuchet (il suo principio di realtà)».
Anche Alessandro Uccelli, su Cineforum, sottolinea l’aspetto più variegato e grottesco del cinema di Dumont, esaltandone i connotati più istrionici e provocatori proprio per la loro forza di sapere scuotere il pubblico: «il cinema deve, dovrebbe, innanzitutto sorprendere lo spettatore, non appoggiarsi esclusivamente al gusto acquisito, alle abitudini, alle comfort zones. Ed effettivamente non sappiamo più cosa aspettarci che possa spuntare dalle sabbie della Côte d’Opale, del Nord-Pas de Calais di Bruno Dumont, dopo le vacche misteriosamente morte di P’tit Quinquin, Jeannette adolescente e giovane adulta in un XV secolo riformulato in salsa metal, i borghesoni isterici di Ma Loute, e ora gli 0 e gli 1, rappresentanti di due fazioni extraterrestri, eppure umane, troppo umane, che convivono in un villaggio di pescatori Ch’ti, ma che con progressiva evidenza capiamo essere i due fronti di uno scontro epocale».
di Frederic Pascali