Racconto di due stagioni
La recensione di Emanuele Di Nicola, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna riguardo a Racconto di due stagioni, di Nuri Bilge Ceylan, designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.

Racconto di due stagioni, di Nuri Bilge Ceylan, distribuito da Movies Inspired, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«In un villaggio dell’Anatolia, un insegnante aspetta invano il trasferimento a Istanbul: prigioniero di un potere invisibile ma onnipresente, imparerà a convivere con la delusione e, forse, l’amore. Il cinema di Ceylan parla come nessun altro di bene e male, di individui e comunità, di verità e finzione, e lo fa con la voce del grande cinema d’autore».

La recensione
di Emanuele Di Nicola
Come si disegna un volto umano? Il maestro Samet vi riflette con i suoi alunni, nell’ultimo film di Nuri Bilge Ceylan, Racconto di due stagioni (in originale About Dry Grasses), in sala dal 20 giugno con Movies Inspired. In un cinema naturalista all’antitesi di Ceylan, quello di Kechiche, Emma compone un ritratto di Adele ne La vita di Adele e propone una riflessione simile, cercando la verità attraverso la cattura del dettaglio: “Può essere una piega delle labbra o un’emozione nello sguardo”, alla rincorsa di ciò che Sartre chiamava “la misteriosa debolezza del volto umano”. Ecco: anche il lungo, minuzioso e sfiancante lavoro di Ceylan sulla rappresentazione cerca quella debolezza misteriosa, del viso e dunque dell’uomo. Lo fa, da sempre, con un’idea di messinscena che deriva dall’alta letteratura: Dostoevskij e Čechov convogliano nei suoi ampi racconti sulla natura umana, ma c’è di più e altro. Qui il quarantenne Samet insegna arte in un piccolo villaggio dell’Anatolia, che graficamente emerge dalla neve: ha già chiesto il trasferimento a Istanbul ma intanto deve “svernare” – letterale – nel clima inospitale. È un uomo solo e insoddisfatto, antipatico, respingente come tutti i personaggi memorabili di Ceylan: è una riduzione del notabile Aydin de Il regno d’inverno, nel senso che è ugualmente fallito ma anche povero, dimesso, non politicamente dominante come il protagonista precedente. È anche individualista, nel senso che non si riconosce in alcuna istituzione collettiva, in nessun gruppo o movimento, dimostrandosi perfino sarcastico nei confronti di chi prova a cambiare le cose.
L’unica scintilla che sembra accendere Samet, farlo sorridere, è il rapporto privilegiato con sua allieva: Sevim, giovanissima, prima ancora che adolescente, che si dimostra intrigante col professore al quale chiaramente “piace piacere”. Dall’inizio tra i due c’è lo scherzo e la complicità, si scambiano leggerezze e regali anche se non si potrebbe. Qui affiora l’altro riferimento cineletterario del film, ovviamente Nabokov. La figura lolitesca di Sevim, seppure non accada niente di esplicito, inaugura un rapporto sottilmente erotico col docente che culmina in un episodio: una lettera che viene sequestrata alla ragazza, di cui non sapremo mai il contenuto, ma immaginiamo sia una missiva d’amore per l’adulto. E Samet la sequestra fingendo di ridurla a brandelli, anche se la giovane non ci crede: una dialettica oppositiva (“Allora non mi ridà la lettera?”) che si dispiega nella classica macrosequenza del turco, dominata dal gioco crudele del maestro contro la psicologia della pre-adolescente, in grado di raggiungere un picco di tensione anti-etica quasi insopportabile, finché la piccola scoppia in lacrime. Rivedere la sequenza dello svenimento del ragazzino ne Il regno d’inverno, con cui questa fa rima.
Samet viene segnalato per comportamento inappropriato nei confronti di alcune studentesse, in forma anonima che gli porta un richiamo, subito insabbiato dall’autorità scolastica patriarcale e sessista. A quel punto il racconto si apre agli altri due personaggi centrali: il docente Kenan, coinquilino e amico di Samet, e soprattutto Nuray (Merve Dizdar, migliore attrice a Cannes), una donna bell’aspetto che zoppica, perché un attentato kamikaze le ha causato l’amputazione della gamba. Eppure Nuray è un’attivista di sinistra, in una società – quella turca – umiliata dall’autoritarismo di Erdogan, al solito mai nominato; in una sequenza fondamentale Samet e Nuray dialogano sull’opportunità o meno dell’impegno e la scena si avvita in modo vertiginoso, contrapponendo due forme mentali agli antipodi che alzano lo scontro sino a sfociare nel teatro della crudeltà, quando l’uomo chiede conto del suo attuale contributo a una donna ormai disabile. E Nuray, in un momento struggente, ipotizzando e smentendo il triangolo coi due amici, confessa che è la prima attenzione sentimentale ricevuta dopo l’amputazione e riflette: vuole capire il suo nuovo ruolo di donna menomata, cosa può chiedere e dove invece deve fermarsi.
Come di consueto Ceylan non dà risposte, offre solo domande. Quanto il proprio fallimento è imputabile all’esterno e quanto dipende da noi stessi? Può esistere un rapporto vero tra un professore e una studentessa, fatto di sguardi e sfioramenti come forma di amore? Si può amare una donna senza una gamba nell’epoca della dittatura dell’immagine e del culto di Instagram? In un contesto rigidamente immobile ha ancora senso impegnarci o tanto vale firmare la resa? L’epica della natura umana viene inscenata duramente, senza sconti, scrutando nell’abisso che avvolge la nostra vita e la nostra coscienza. Tutto ciò attraverso un racconto cinematografico di 197 minuti che non dà tregua e inchioda come un thriller. Alla fine le erbe secche del titolo vengono postulate della voce fuori campo di Samet, convinto che qui non possa crescere nulla. Ma attenzione. L’ultima inquadratura è per il viso di Sevim, con la ragazza che gioca amabilmente nella neve, e si torna così alla “misteriosa debolezza del volto umano”: una visione che smentisce clamorosamente il discorso di Samet, perché nella bellezza ineffabile di quel viso giovanile forse l’erba secca può germogliare. È tutta qui la forza del racconto, è tutto qui il potere dell’immagine. Nuri Bilge Ceylan: uno dei migliori cinema possibili.

Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes 2023, Racconto di due stagioni è stato accolto piuttosto positivamente dalla stampa italiana.
Anna Maria Pasetti, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, esalta il film non temendo di scomodare il termine capolavoro: «esistono film dalla regolare durata di un’ora e mezza che sembrano infiniti. Esiste poi il cinema di Nuri Bilge Ceylan che ne utilizza almeno il doppio ma lo fa apparire necessario, come un lungo e denso flusso di nutrimento per gli occhi, l’intelligenza e la coscienza. Non fa eccezione il suo nuovo capolavoro – e il termine è quanto mai pesato – presentato in concorso a Cannes 2023 e finalmente anche nelle sale italiane». Le fa eco Nicola Falcinella, che sulle pagine di La Provincia di Como descrive così il percorso del regista: «è uno dei grandissimi del cinema contemporaneo, uno dei rari di cui si può ben dire che non abbia mai sbagliato un film. È il turco Nuri Bilge Ceylan del quale arriva in sala il nono lungometraggio in una carriera quasi trentennale iniziata come fotografo, il bellissimo Racconto di due stagioni, che lo scorso anno aveva ricevuto il premio di miglior attrice alla sua protagonista Merve Dizdar al Festival di Cannes».
Simone Emiliani, su Sentieri Selvaggi, inserisce la pellicola all’interno della filmografia del regista sottolineando una coerenza tematica e stilistica lineare: «il campo lungo con il paesaggio innevato. E poi stacco, verso il finale, l’estate. Si succedono le stagioni in un tempo che si è fermato in un villaggio dell’Anatolia nel nuovo film di Nuri Bilge Ceylan. Non è più lo spazio di un poliziesco di C’era una volta in Anatolia e neanche il rifugio di un hotel dove esplodono le tensioni sentimentali di coppia di Il regno d”inverno con cui il cineasta ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2014. E proprio da quel film, e dal successivo L’albero dei frutti selvatici che arriva quel senso di alienazione e isolamento che ha da sempre imprigionato i suoi personaggi dentro un luogo».
Anche Roberto Manassero, su Cineforum, usa il film per indagare più nel complesso lo stile del regista, interrogandosi sulle caratteristiche da sempre segnano il suo sguardo. Scrive infatti il critico: «perché i film di Ceylan sono così lunghi, i suoi dialoghi così corposi, le sue immagini così larghe, anche negli interni dove i suoi personaggi immancabilmente conversano, mangiano, bevono té? Bisognerebbe provare a vedere i suoi stessi film con tempi meno dilatati, dialoghi ridotti all’osso, scene espunte al montaggio, e capire se funzionano comunque; se, cioè, il suo cinema – che è cinema d’autore che non si nasconde e non cerca compromessi con lo spettatore rifuggendo da un’idea consolidata di poeticità e artisticità – possiede ugualmente quel passo profondo e inafferrabile che è il passo della vita e delle sue molteplici stratificazioni, dell’incrocio di visioni, desideri, punti di vista, egoismi di cui sono fatte le relazioni umane, dai rapporti di coppia al legame tra un padre e un figlio, due amici e una donna, un professore e una sua allieva».
Della stessa idea è Elisa Battistini, la quale, su Quinlan, espone così il suo gradimento al film: «alla fine dei 197 minuti di Racconto di due stagioni si ha la netta impressione di aver assistito a un’opera dalla drammaturgia perfetta e a qualcosa di raro, prezioso: un romanzo di grande respiro, un testo stratificatissimo scritto da Nuri Bilge Ceylan assieme a sua moglie (e sua consueta collaboratrice) Ebru Ceylan, e allo scenaggiatore Akin Aksu ossia lo stesso “trio” che aveva firmato anche il precedente magnifico lavoro del regista turco, L’albero dei frutti selvatici (2018)». Esattamente come fa Massimo Causo su Duels, che loda l’operazione proprio per la grande potenza intellettuale che sprigiona: «sempre più concavo, il cinema di Nuri Bilge Ceylan, sempre più raccolto in una introflessione che accoglie in sé drammi antichi e ipotesi di una modernità impossibile, collocandoli in una tensione morale che scaturisce dalle delusioni della vita quotidiana».
di Emanuele Di Nicola