Anatomia di una caduta
La recensione di Marco Lombardi, seguita dalla rassegna stampa a cura di Simone Soranna, riguardo Anatomia di una caduta di Justine Triet, Film della Critica per l'SNCCI.
Anatomia di una caduta di Justine Triet distribuito da Teodora Film è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione:
«Justine Triet capovolge le dinamiche di genere e di potere all’interno di una coppia, utilizzando i meccanismi della detection e del courtroom drama per raccontare la difficoltà contemporanea nel ritarare i rapporti fra uomini e donne, impantanati in narcisismi e interpretazioni contrastanti della realtà, rancori, rivendicazioni e mal digerite rinunce. Qui niente è come sembra e niente è chiaramente visibile, o interpretabile. Con una Sandra Hüller in stato di grazia».
La recensione
di Marco Lombardi
Come i vari tentativi d’ingrandimento di una foto non conducono, in Blow Up, a una verità assoluta (a dire che, da vicino, tutto è più confuso), lo stesso vale per l’anatomia di una morte per caduta, dal balcone di una casa dispersa fra i monti intorno a Grenoble, perché il tentativo disperato di capire se si tratti di un incidente, oppure di un suicidio, se non (addirittura) di un omicidio, apre mille altre porte che paradossalmente finiscono per allontanarci sempre di più dalla risposta, o anche solo da una risposta.
L’unica certezza che emerge, dalle conseguenti indagini di polizia, è l’infanzia violata, perché piano piano si scopre che la cecità del figlio Daniel è conseguenza di un incidente non così fortuito, e che quell’incidente è frutto di una guerra familiare, con Samuel che accusa Sandra di avergli rubato un’idea (entrambi sono scrittori), e Sandra che accusa Samuel di averla relegata ai confini del mondo per trovare un’improbabile ispirazione, e ancora Samuel che accusa Sandra di un numero eccessivo di distrazioni sessuali, spesso con altre donne.
La regista francese Justine Triet non ha pietà (direbbe Nanni Moretti) dello spettatore, girando sempre di più il coltello nella piega delle ipocrisie, fino a un impietoso distillato dell’istituto della famiglia che, invece di proteggere, vomita le proprie meschinità sui figli innocenti, costringendoli a diventare grandi prima del tempo per coprire i loro buchi di responsabilità: l’abbraccio che, a fine film, il ragazzino regala alla madre appena prosciolta, sa infatti di ribaltamento dei ruoli, fornendo anche un’ulteriore (agghiacciante) ipotesi a quella morte, come se Daniel si fosse sentito costretto ad agire come Sean Penn in Mystic River, spinto da un folle tentativo di vendicare e proteggere, allo stesso tempo.
La regia degli attori è asettica, come pure la fotografia, grazie alle sue mille sfumature di fango, così che lo spettatore è impossibilitato a empatizzare per uno dei due genitori, e alla fine pure per Daniel; il montaggio, invece, è temporalmente frammentato, a dare l’idea di uno specchio rotto. Definitivamente.
Una breve rassegna della stampa italiana sul film
(a cura di Simone Soranna)
Sin dalla sua presentazione al Festival di Cannes, la critica italiana ha accolto favorevolmente (quasi) all’unanimità il film di Justine Triet. Sono state molte le analisi corpose mirate a “vivisezionare” il progetto, quasi come si volesse restituire su carta il medesimo processo deduttivo sui cui è basato il plot della pellicola. Ad esempio, a tal proposito, Chiara Borroni scrive su Cineforum: «la caduta, come dice il titolo, è il centro stesso dell’idea narrativa di Anatomia di una caduta di Justine Triet, che da lì – ricostruendo come l’uomo sia morto – comincia a entrare nel corpo vivo delle relazioni tra i personaggi, quelle che hanno preceduto l’evento tragico». Su Quinlan, invece, Elisabetta Battistini colloca il film nel cinema a noi più contemporaneo affermando che «come altri film in Concorso a Cannes, anche Anatomia di una caduta, quarto lungometraggio della regista francese Justine Triet, affronta il labirinto della verità e la difficoltà di definirla in maniera condivisa per non dire oggettiva».
Simone Emiliani, su Sentieri selvaggi, allarga ulteriormente il discorso, collocando la pellicola nella filmografia della regista e suggerendo un accostamento molto interessante. Scrive il critico: «c’è ancora un altro volto di donna nel cinema di Justine Triet. Anche Anatomia di una caduta potrebbe avere il nome della protagonista nel titolo come era già successo con Victoria e Sybil. Proprio dal suo precedente film arriva il personaggio di Sandra Hüller che interpretava il ruolo della regista. E in effetti anche qui potrebbe essere il motore della messinscena, lo sguardo parallelo di Justine Triet, la possibile angolazione soggettiva sugli eventi».
Anche Mauro Donzelli loda il lungometraggio sulle pagine di Coming Soon, scrivendo che «Triet costruisce un film asettico eppure affascinante, in cui l’intimo diventa improvvisamente di dominio pubblico durante il processo, senza neanche il velo di sottile trasparenza rappresentato dalla finzione letteraria di una storia personale e autobiografica». Gli fa eco anche Federico Pedroni che su Duels rilancia lodando l’interpretazione dell’attrice protagonista: «Sandra Hüller – bravissima – regala alla sua protagonista una calma a tratti inquietante, una sicurezza di toni, un’affettività talvolta glaciale. Triet sfrutta la location montana – una casa accogliente e perfetta incastonata nella natura – per disegnare invece una disgregazione, un punto di rottura, una domanda ineludibile destinata a cercare risposte nel tribunale di Grenoble».
Paola Casella si sofferma invece più sullo sguardo registiche di Triet, notando come l’autrice diriga «avvicinandosi e allontanandosi dai suoi personaggi, talvolta oscurandoli e poi riportandoli in piena luce, altre volte dissociando l’immagine dal suono, senza abbandonarsi a inutili virtuosismi ma mettendosi a servizio di una storia di doppie verità e di invisibilità a se stessi, senza scene madri ma attraversata da mille piccoli scollinamenti morali». Così come Marco Romagna, su CineLapsus, che analizza positivamente l’operazione nella sua totalità: «è un film indubbiamente solido, dalle spalle larghe, probabilmente un po’ troppo lungo nei suoi 150 minuti che continuano a girare intorno allo stesso punto eppure complessivamente ben scritto e ancora meglio interpretato nel suo multilinguismo a cavallo fra il francese (che il personaggio di Sandra, tedesca di nascita, non ha mai voluto masticare a sufficienza) e l’inglese (con cui finirà ben presto per esprimersi anche in tribunale) parlato anche in famiglia come compromesso o forse come ennesima imposizione».
di Marco Lombardi