Familia

La recensione di Familia, di Francesco Costabile, a cura di Guido Reverdito.

Il (triste) paradigma è sempre lo stesso. Anche se declinato in modi diversi. C’è un padre violento che sfoga la sua rabbia cieca su una moglie vittima incolpevole. La maltratta brutalmente senza alcuna ragione di fronte ai figli piccoli la cui adolescenza diventa un’educazione alla violenza come grammatica della vita. La donna cerca protezione nella legge. Denuncia il marito manesco e ne ottiene l’allontanamento momentaneo. Ma le tossine del rigetto lo trasformano in stalker capace di avvelenare ogni attimo di una famiglia già fin troppo disfunzionale per reggersi in piedi da sola. Fino al punto di rottura con finale annunciato: diventato adulto e imbevuto di cultura dell’odio, uno dei figli colma con la vendetta il vuoto lasciato dall’impotenza della giustizia correttiva.

Di storie come questa è costellato il nostro presente. E il cinema ne ha raccontati tanti di padri padroni pronti a usare le mani quando si accorgono di aver perso il controllo di quell’oggetto – la donna/moglie/compagna – che secoli di patriarcato machista hanno insegnato loro essere proprietà da usare e abusare a proprio piacimento. Nel caso di questo Familia, secondo film del calabrese Francesco Costabile, si tratta però di fatti realmente accaduti: a raccontarli era stato Luigi Celeste in Non sarà sempre così, terrificante autobiografia uscita nel 2017 e scritta dopo aver scontato nove anni di carcere per aver ucciso il padre Franco (simile in tutto al personaggio del film interpretato con potente efficacia da un sempre più convincente Francesco Di Leva).

E non è forse un caso che quest’opera seconda confermi una poetica già ben definita nella non lunga carriera di Costabile: dopo quattro cortometraggi e tre documentari, nel 2022 aveva esordito con Femmine, guarda caso ugualmente tratto da un libro e ispirato a fatti realmente accaduti, in particolare alla storia di due donne salite alla ribalta delle cronache per essere state le prime ad avere il coraggio di ribellarsi contro la violenza di genere all’interno della ‘Ndrangheta.

Mix più che riuscito di molti generi – dal melodramma urlato alla tragedia greca per passare attraverso le tonalità del thriller psicologico – e presentato a Venezia nella sezione “Orizzonti” (con premio per la miglior interpretazione maschile al bravissimo Francesco Ghegi, che a soli 22 anni ha già alle spalle ben 9 film), Familia è un film intenzionalmente disturbante che ha l’ambizione non solo di mettere lo spettatore a disagio mostrando con feroce realismo quella truce violenza domestica che troppo spesso rischia ormai di non fa male quando viene tradotta in notiziario TV, ma che si prefigge anche l’intento di far passare un messaggio ugualmente valido a livello pedagogico: e cioè che sanare con la violenza i guasti causati dalla violenza stessa altro non è che perpetuarne la presenza tossica di generazione in generazione. In una sorta di iterazione meccanica da codice hammurabico che invece di eradicarne la presenza non fa che incrementarne le potenzialità di riproduzione all’infinito. Come accade puntualmente nel film. Dove uno dei figli vittime della violenza genitoriale, incapace di accettare che la famiglia possa essere il ring domestico su cui il pater familias che gli è capitato in sorte si accanisce sulla moglie massacrandola di botte come uno sparring partner votato a incassare in silenzio, ne trova una di scorta in un gruppo di estrema destra. Dove il culto di un diverso tipo di violenza gli permette di incanalare nella sete di vendetta l’odio e il risentimento che lo divorano dentro. Senza però accorgersi di non fare altro che consolidare quello stesso linguaggio contro cui aveva deciso di ribellarsi. Finendo così col confermare che non vi è via di uscita se si seguita a trasformare la famiglia da nido protettivo di tutti i membri che la compongono facendo squadra in gabbia costrittiva da cui evadere col ricorso alle misure estreme. Parricidio incluso.


di Guido Reverdito
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