Campo di battaglia

La recensione di Campo di battaglia, di Gianni Amelio, a cura di Elisa Baldini.

Fin dalla prima inquadratura, un lento piano sequenza confuso dalle ombre che precede un soldato intento a cercare qualcosa di utile alla sua sopravvivenza frugando tra cumuli di cadaveri,  l’ultimo film di Gianni Amelio ci precipita, con una potenza rara nel cinema italiano di oggi, in un non luogo quasi metafisico, dove il tempo si allunga e sembra sospeso. L’efficace fotografia fredda negli esterni e contrastata negli interni di Luan Amelio Ujkaj ci accompagna con i passi della disfatta in un limbo dove la dimensione è quella dell’attesa: territorio comune ai due nuclei tematici che si fanno tutt’uno in questo Campo di battaglia (liberamente ispirato al romanzo La sfida di Carlo Patriarca): la guerra e la malattia.

L’intento è pregevole, e le premesse ci aprono subito al respiro dei grandi romanzi di trincea. Il passo, però, da sicuro ed incalzante, va perdendosi via via che l’attenzione si sposta dal coro composito dei feriti ai due tenenti medici, legati da un antico affetto, che hanno il compito di ispezionarli: intransigente e deciso a rimandare in guerra anche gli storpi l’alto-borghese Stefano (Gabriel Montesi), indulgente fino alla complicità con gli autolesionisti lo schivo Giulio (Alessandro Borghi). In mezzo a loro, ancora più flebile ed incerta la figura di Anna (Federica Rosellini), a comporre un triangolo di idee ingessato e muto al confronto della loquacità dei corpi, del sangue, degli umori che dominano la prima metà del film.

L’elemento più efficace di Campo di battaglia rimane quindi, quel senso struggente di tragedia corale che emanano i volti lividi e speranzosi dei malati, che risuona nei dialetti di chi sogna di fuggire da una guerra inutile ed ingiusta. Come il soldato di appena 19 anni che si affida alla non cura del dottor Giulio “mano santa” e mette a rischio l’unico occhio buono che ha, pur di tornare a casa, una Sicilia così lontana da non meritarsi nemmeno una licenza. Il rigore agghiacciante della sua fucilazione, ripresa dalle sue spalle mentre di fronte a lui, oltre i carnefici, gli altri mutilati siedono come spettatori dell’orrore disposti a semicerchio, è senza dubbio uno dei momenti più suggestivi e d’impatto di un film solo parzialmente riuscito.


di Elisa Baldini
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