Black Tea

La recensione di Black Tea, di Abderrahmane Sissako, a cura di Guido Reverdito.

Aya è una trentenne della Costa D’Avorio che all’improvviso decide di ribellarsi a costrittive convenzioni ancestrali: al momento del fatidico sull’altare, dalla sua bocca esce un secco no che gela officiante, invitati e in parte anche il promesso sposo (per altro ugualmente vittima di un matrimonio combinato da terzi). Lasciato il non-marito e il paese, dopo un importante stacco temporale da quegli eventi mostrati a inizio film, lo spettatore ritrova la protagonista nella megalopoli di Guangzhou, perfettamente inserita a livello di padronanza della lingua cinese e integrata in un quartiere significativamente denominato Chocolate City perché abitato in stragrande maggioranza da immigrati africani arrivati lì in massa a partire dai primi anni ‘90.

Ed è proprio in quel brulicante cocktail di etnie che coabitano in sorprendente armonia che Aya trova un impiego presso il negozio di Cai, un sofisticato coltivatore nonché esperto delle più diverse specie di piante del the. E anche se l’uomo si porta dietro la zavorra di un matrimonio sostanzialmente al capolinea (pur se non confermato in maniera ufficiale), nonché un figlio capace di andare aldilà delle convenzioni culturali, e un’altra figlia mai però riconosciuta, tra i due scoppia la scintilla dell’amore. Forte quanto basta per cancellare lo iato tra due mondi solo apparentemente distanti anni luce, a dimostrazione di come l’intensità dei sentimenti sia in grado di creare una geografia dell’anima nella quale non contano più né bandiere, né confini, né tantomeno barriere etniche, ma tutto possa essere sublimato in un concentrato perfetto governato solo dal cuore.

Tornato a dirigere un film a dieci anni di distanza da Timbuktu (in concorso quell’anno a Cannes e poi candidato agli Oscar come miglior film straniero), con Black Tea il sessantaquattrenne regista e sceneggiatore mauritano Abderrahmane Sissako abbraccia i canoni della romcom d’autore per proporre una riflessione sull’incontro tra mondi e culture solo in teoria impossibilitati a identificare quella terra di nessuno dove l’osmosi dei sentimenti abbia la meglio sulla diffidenza e sull’idiosincrasia nei confronti del diverso da sé.

Ma nelle maglie della love story interraziale tra Aya e Cai (che si sviluppa a ritmi bradicardici immersa in perenni chiaroscuri che le conferiscono un’aura vagamente sospesa tra la realtà e il sogno), Sissako riesce a infiltrare anche una riflessione di natura marcatamente politica che conferma come il suo sia un cinema che sfrutta vicende apparentemente marginali per richiamare l’attenzione dello spettatore su problematiche di dimensioni planetarie.

E se in Bamako e Timbuktu a incrinare gli equilibri instabili dei microcosmi africani al centro dei film erano rispettivamente l’invadenza della finanza internazionale e il fanatismo brutale di frange dell’Islam più estremo, in questa commedia romantica sull’amore possibile ai tempi dell’integrazione tra etnie a essere al centro del mirino di Sissako c’è l’indiretta e forse un po’ subdola colonizzazione di parecchi paesi africani portata avanti dalla Repubblica Popolare Cinese dal almeno un trentennio a colpi di penetrazione commerciale e sfruttamento delle risorse naturali.

Girato interamente a Taiwan e costruito su un crescendo di scoperte interiori dei due magnifici protagonisti contrappuntate da attese dilatate nel tempo che rischiano di affaticare lo spettatore non attrezzato a questo tipo di passo, Black Tea si fa comunque apprezzare perché ha il coraggio di gridare apertamente che la felicità intesa non solo a livello individuale ma come condivisione di un sentire che deve appartenere a una comunità intera travalicando le differenze tra etnie e tra culture per farsi identità sincretica è un diritto per tutti. Nessuno escluso.


di Guido Reverdito
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