Berlinguer – La grande ambizione
La recensione di Berlinguer - La grande ambizione, di Andrea Segre, a cura di Francesco Di Pace.

Non era un’impresa facile ritornare a dieci anni esatti dal documentario di Walter Veltroni (anche quello nato per la commemorazione in cifra tonda) sulla figura di Enrico Berlinguer. E anche per questo, oltre alle immancabili e pretestuose polemiche politiche, c’era molta attesa per il film di Andrea Segre Berlinguer – La grande ambizione che ha aperto, in Concorso, la Festa del Cinema di Roma. Il risultato, tutto sommato, non delude le aspettative, anche se in questi casi il rischio del “santino” agiografico era dietro l’angolo, insieme a quello di una narrazione che indugiasse troppo sul retorico. Rischi che Segre, e con lui Marco Pettenello co-autore della sceneggiatura, riescono quasi sempre ad evitare, puntando innanzitutto sull’utilizzazione accurata dei tanti discorsi e scritti del segretario del PCI, che costituiscono l’ossatura del film, costruito in chiave di biopic (seppur limitato nel tempo preso in esame) ma che non disdegna un certo sapore documentaristico (genere che Segre ha sempre manovrato con consapevolezza) che si mescola alla finzione vera e propria. Se mai va detto che questa tessitura, specie nella prima parte, appesantisce un po’ la visione e raffredda l’attenzione dello spettatore, che rischia di concentrarsi maggiormente sulla bravura di Elio Germano, quasi perfetto, ed è quasi inutile rimarcarlo, nel restituire oltre alla mimica proprio la parlata di Berlinguer, le sue interlocuzioni con quel marcato accento sardo.
Nel film si racconta, è stato già detto, del culmine della vita politica di Enrico Berlinguer, in particolare degli anni cruciali che vanno dal 1973 al 1978: gli anni, per intenderci, del viaggio in Bulgaria e dell’incidente-attentato di cui fu vittima (episodio che fu tenuto nascosto volontariamente all’epoca) e quelli del progressivo distacco del PCI dall’influenza dell’Unione Sovietica; gli anni del tentativo di utilizzare l’enorme successo elettorale (più del 30% dei consensi) facendo fronte alla resistenza della Democrazia Cristiana e proponendo insieme all’allora Presidente della DC Aldo Moro un patto di governo, il famoso “compromesso storico” che tante critiche si attirò anche a sinistra e all’interno dello stesso PCI; erano pure gli anni di piombo al loro culmine, quelli della lotta armata e del terrorismo, che confluirono poi non a caso nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro. Mettendo fine così a quella “grande ambizione” di matrice gramsciana del titolo, prima ancora della morte prematura del leader, avvenuta nel 1984 a soli 62 anni, colpito da un malore durante un comizio a Padova.
Andrea Segre racconta tutto questo con onestà, senza particolari guizzi di regia, alternando immancabilmente nel racconto la parte politica a quella privata: in questo senso risultano efficaci alcuni momenti di uscita pubblica in mezzo alla gente comune, fra gli operai e i sostenitori, oppure il faccia a faccia con l’allora Presidente dell’Unione sovietica Leonida Breznev che fece da preludio al discorso che il segretario tenne al Cremlino, in cui si schierò apertamente per un rinnovamento dell’utopia comunista nell’ottica di una socialdemocrazia attenta alla libertà e ai diritti umani. In ambito familiare, rimane toccante almeno la scena in cui il leader convoca la moglie (una brava Elena Radonicich) e l’intera famiglia per ribadire il suo fermo parere sulla “non trattativa” coi terroristi nell’affaire Moro (sappiamo bene quanto diverse fossero le sue motivazioni da quelle di chi lo faceva per sbarazzarsi dello statista democristiano), facendosi giurare che nel caso fosse successo a lui, sarebbero stati anche loro fermi in questa decisione. Accanto a Germano, una folta schiera di bravi attori, da Citran che fa Moro a Pierobon che interpreta Andreotti, a Pennacchi, Tirabassi, Calabresi e Acquaroli. Un essenziale e forse leggermente già visto uso dei materiali di repertorio, contribuisce a riscaldare nostalgicamente gli animi nella visione del film, che si propone certamente come film “politico” nel senso più nobile del termine, la cui grande ambizione può rimanere quella di diventare un monito a considerare la politica una missione, magari costellata di dubbi e contraddizioni, e insieme un momento di riflessione collettiva sulle nostre responsabilità civili e politiche.

di Francesco Di Pace