Amen
Difficile parlare di un film come Amen, oggi che la Storia agonizza tra gli spasmi di una rimozione istituzionalizzata.. Difficile perché le categorie estetiche vacillano di fronte all’ostinazione del cinema a raccontare il nazifascismo. Come un testimone oculare. Con funzione vicaria. Ferito allo sguardo dall’orrore delle camere a gas e dello sterminio pianificato, vere e proprie categorie irrappresentabili almeno fino a Spielberg, Singer, Mihaelanu e Benigni, il cinema preme per testimoniare ancora. Come il protagonista di quest’ultimo lavoro di Costa-Gavras, un tenente delle SS testimone oculare, suo malgrado, degli orrori nazisti e intenzionato a testimoniare presso l’autorità ecclesiastica per denunciare al mondo lo sterminio degli ebrei. Come lo sguardo inquieto di Gavras, il tenente pentito vaga da un posto all’altro, nell’inarrestabile incedere del tempo scandito dal procedere dei vagoni di deportati, orribilmente vuoti.
Ed è proprio sulle sottrazioni allo sguardo che il regista trova la sua forza espressiva, recuperando una diplomazia formale, una misura stilistica emblematica dei tempi che corrono. Di nuovo non entriamo nelle camere a gas. L’orrore resta fuori campo. E paradossalmente questa scelta diventa la cifra stilistica più forte. Nell’indeterminatezza attuale di ogni immagine, nell’ambiguità di ogni simbolo che nell’interpretazione finisce per rovesciarsi nel suo contrario, la scelta pudica di Costa-Gavras è sufficientemente eloquente. Tanto più che il rifiuto di vedere è il tema del film. Un rifiuto generalizzato, una cecità volontaria ed impenetrabile. Amaramente attuale.
Dietro l’armonia neoclassica delle inquadrature (l’immagine da cartolina del Vaticano vira dal pittoresco al grottesco), spesso violate da inquieti zoom sui volti, sugli sguardi, si cela il caos, la barbarie. Una contrapposizione certo non originale, ed estremizzata dal genio di Aleksandr Sokurov nel suo ritratto hitleriano Moloch, ma significativa. La testimonianza oculare del cinema passa (ancora) attraverso il coraggio del racconto semplice, lineare (tratto peraltro da una pièce teatrale: Il vicario di Rolf Hochhuth), veicolato da un’immagine seducente e misurata, attraversata da una sottile inquietudine. Allo stesso modo del gesuita Riccardo Fontana, che di fronte al Papa esibisce il segno discriminante dei giudei, la testimonianza è visibile solo se accompagnata da un gesto simbolico disturbante. Come lo è la locandina del film, firmata Oliviero Toscani (il principe dell’ambiguità) che fonde una croce latina con una croce uncinata. Un simbolo che si rovescia nel proprio contrario, rivelando una spaventosa contiguità. Non si può non vedere.
di Riccardo Triolo