Luna Rossa

C’è qualcosa di incredibilmente claustrofobico nel film di Capuano, tragedia moderna, o post-moderna, sull’ascesa e sull’autodistruzione di una potente famiglia della camorra napoletana, che deve molto ai classici greci.
Oreste, nella doppia veste di narratore e di personaggio, con la stessa autorevolezza, l’affermazione di sacra ineluttabilità di un coro greco, e con sguardo in macchina, racconta ad un ipotetico “Vostro Onore” il disegno che lo ha portato ad eliminare tutti i suoi antagonisti. Una “soluzione finale” condotta con criteri scientifici, come se si trattasse di un esperimento: mettere nella stessa gabbia un gruppo di animali feroci e osservare la loro lotta per la sopravvivenza, in cui il primo è sbranato dal secondo che è sbranato dal terzo.

E non c’è spazio per i sentimenti in questa gabbia in cui comanda l’istinto: il rapporto incestuoso tra Oreste e la sorella, tentativo malato di formare un microcosmo autosufficiente, è la scelta obbligata di chi non ha alternative, di chi non può uscire dal nucleo; l’irrisolto complesso edipico del protagonista, che percorre tutto il film, è dettato dal desiderio di possedere la madre in quanto simbolo del “potere”; nel rituale autolesionista dell’incidere il proprio petto con una lametta, Oreste esemplifica la sua (com)pulsione, il bisogno di ferire la sua stessa carne, versare il suo stesso sangue; il desiderio della figlia minore di andare a recuperare il cadavere della propria sorella morta per piangerlo, rischiando la punizione del capofamiglia, riporta all’Antigone di Sofocle ma è una trasposizione fredda, distaccata.

Una riproposizione “straniata”, verrebbe da dire, e “straniante” riconducibile alla versione della tragedia sofoclea di Brecht; ed è evidente come tutto il tono del racconto, a partire dalla recitazione degli attori, sia brechtiano: Carlo Cecchi con il suo “dire” la battuta canzonando e cantilenando sembra sempre fuori da questo e dagli altri mondi; Licia Maglietta, così monotona nelle espressioni nonostante indossi una parrucca diversa ad ogni apparizione (quasi un omaggio ai mille splendidi vestiti della protagonista di In the mood for love), è una maschera di inscalfibile indifferenza; Tony Servillo è la rappresentazione del dolore, della disillusione e del “male di vivere”, sentimenti sintetizzati sul suo volto in perenne ed inequivocabile finzione.


di Ludovico Bonora
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