Bernard Herrmann e Dmitrij Dmitrievič Šostakovič
Roberto Pugliese tratteggia un ritratto particolare di Bernard Herrmann a cinquant'anni dalla sua scomparsa.

Che cos’hanno in comune Bernard Herrmann (all’anagrafe newyorkese Maximilian Herman) e Dmitrij Dmitrievič Šostakovič?
A parte la comune professione di compositori, si potrebbe pensare ben poco. Ma il mondo della musica cinematografica riserva spesso convergenze e coincidenze sorprendenti. Innanzitutto una radice condivisa: la famiglia Herman era ebraica e di origine russa. Poi un dato cronologico: entrambi sono scomparsi giusto cinquant’anni fa, il russo il 9 agosto 1975 a 68 anni, l’americano a 64 la vigilia di Natale dello stesso anno, appena ultimate le sessioni di registrazione di “Taxi Driver” (Id., 76) di Martin Scorsese.
Non abbiamo documenti che comprovino la conoscenza di Herrmann da parte del russo, anche se questa è altamente probabile. “Mitja” era un accanito cinèfilo ed è più che plausibile che in qualcuna delle sue tournées propagandistiche americane prima e dopo l’era staliniana abbia visto qualche film musicato dal compositore prediletto di Alfred Hitchcock. E che Šostakovič fosse disponibile ad assorbire stili e linguaggi anche sideralmente da lui distanti per ideologia e forma è testimoniato – come ben sanno gli appassionati – da quella impressionante coincidenza (una via di mezzo fra il plagio e la citazione) tra l’incalzante fugato che Franz Waxman – altro titano della musica filmica hollywoodiana – compose per la sequenza della corsa nei boschi di Montgomery Clift/George Eastman subito dopo la morte, da lui causata, della fidanzata incinta Shelley Winters/Alice Tripp in “Un posto al sole” (A place in the sun, 1951, George Stevens), e la martellante fuga che apre la seconda parte del primo movimento della Sinfonia n.11 in sol minore op.103 “L’Anno 1905” che Šostakovič compose (occhio alle date) nel 1957 per ricordare gli eventi accaduti nella cosidetta Prima Rivoluzione Russa.
Sappiamo invece per certo che Herrmann conosceva, eccome, l’opera del compositore sovietico, tant’è che ce ne ha lasciato un formidabile documento discografico, ossia la suite ricavata dalle musiche che Šostakovič scrisse nel ’64 per “Amleto” (Gamlet) di Grigorij Kozincev, e registrata da Herrmann poco prima della sua scomparsa sul podio della NationalPhilharmonic in un leggendario album Decca dedicato alle partiture per film ispirati all’opera di Shakespeare.
Va anche ricordato che durante la propria carriera direttoriale, sviluppatasi precedentemente e poi parallelamente a quella di compositore, l’attenzione di Herrmann al repertorio sinfonico del Novecento storico è sempre stata costante, sicuramente comprendendo anche con lo studio delle complesse e conflittuali partiture di Šostakovič.
Ma, al di là delle coincidenze cronologiche o delle convergenze stilistiche, c’è un elemento più profondo e significativo che collega queste due figure e che riguarda più da vicino il loro status di compositori per il cinema. A differenza infatti di molti altri loro colleghi, anche celebri e blasonati, Herrmann e Šostakovič non hanno mai concepito questa branca della propria creatività come un ripiego, un ramo secondario, una mera fonte di guadagno alla quale sacrificare la propria creatività riservandone le fasi più “alte” alla sala da concerto o al teatro d’opera.
Questo è un dissidio che ha tormentato soprattutto in passato molti nomi illustri della musica (per film) contemporanea, da Erich Wolfgang Korngold a Ennio Morricone: proprio quest’ultimo amava contrapporre il proprio ruolo di musicista cinematografico a quello di autore di “musica assoluta”, senza peraltro riuscire mai a spiegare quale grado di superiore “assolutezza” potesse difettare a capolavori concepiti per il teatro d’opera (“Otello”, “Carmen”: “Tristano e Isotta”, “Wozzeck”,,,) e quale di subordinata “relatività” gravasse sui suoi capolavori destinati al cinema (“Mission”, “C’era una volta in America”, “La tenda rossa”,”Nuovo Cinema Paradiso”…). Sarà appena il caso di ricordare che questo dilemma non sembra avere mai condizionato negli esiti pratici altri grandi protagonisti della musica per film, quali ad esempio Miklós Rózsa, lo stesso Korngold, Nino Rota, Georges Auric, John Williams: i quali hanno appunto affiancato al proprio lavoro per la settima arte un nutrito corpus di partiture concertistiche e operistiche rimanendo totalmente e riconoscibilmente fedeli al proprio stile ma consentendo al primo e alle seconde di intercettarsi e intrecciarsi in uno scambio di moduli e di idee costantemente paritario.
Herrmann e Šostakovič appartengono a questa seconda categoria. Ed è, il loro, un atteggiamento etico più ancora che estetico o stilistico: tanto più ragguardevole se si tiene presente la diversità delle cornici storiche e culturali in cui entrambi operano.
Herrmann si muove in maniera del tutto autonoma, indipendente e spesso ribelle, all’interno del “sistema” hollywoodiano, quindi delle majors e dell’onnipotenza dei produttori. Ma esordisce in coppia con il Re di tutti gli indipendenti, Orson Welles, e lega successivamente il proprio nome ad un inglese trapiantato negli States, Alfred Hitchcock, che utilizzerà quel sistema per elaborare le proprie personali riflessioni sull’angoscia, la suspense, la paura. Carattere di proverbiale intrattabilità, “Benny” è posseduto sin da ragazzo da un fuoco creativo che non conosce limiti: dai 18 ai 29 anni, quando scrive la sua prima partitura filmica per “Quarto potere” (Citizen Kane), compone poemi sinfonici, pezzi cameristici, una deliziosa Sinfonietta per archi e una scintillante, drammatica Sinfonia per orchestra; attività che continuerà in parallelo con quella cinematografica, producendo tra l’altro la cantata “Moby Dick”, l’omaggio ai caduti “For the fallen”, lo struggente “Echoes” per quartetto d’archi ma soprattutto quel misconosciuto gioiello che è “Wuthering Heights”, tratto da Cime tempestose diEmily Brontë: è l’opera colossale, in un prologo, quattro atti e un epilogo, su libretto della sua prima moglie Lucille Fletcher, cui Herrmann lavorò pressoché ininterrottamente dal 1943 al ’51, senza riuscire mai a vederla rappresentata (lo sarà solo per la prima volta, nel 1982 a Portland, in una versione ridotta, e poi a Minneapolis in forma integrale nel 2011, per il centenario della nascita del musicista) ma arrivando fortunatamente a consegnarcene nel 1966 una preziosa registrazione discografica, effettuata a proprie spese, per l’etichetta Unicorn Records. Un affresco lirico imponente e dal possente respiro drammaturgico, che i teatri dovrebbero riscoprire e riproporre.
La posizione di Herrmann all’interno della musica cinematografica è dunque, come si diceva, quella di un’assoluta parità e interdipendenza con gli altri generi da lui praticati (nella stessa “Wuthering Heights” affiorano citazioni ed echi da partiture come quella per “Il fantasma e la signora Muir” – The ghost and Mrs. Muir, 1947, Joseph L. Mankiewicz), ma è soprattutto il frutto di una determinazione etica e professionale che non consente cedimenti o compromessi. Non è un caso che la traumatica rottura con Alfred Hitchcock, al quale Herrmann ha regalato, a partire dal 1955 e per un decennio, una serie di gemme musicali come “La congiura degli innocenti” (The trouble with Harry), “L’uomo che sapeva troppo” (The man who knew too much), “Il ladro” (The wong man), “La donna che visse due volte” (Vertigo), “Intrigo internazionale” (North by Northwest), “Psyco” (Psycho), avvenga proprio quando, dopo il fiasco commerciale di “Marnie” (Id., 1964), per il quale Herrmann aveva scritto una partitura di fiammeggiante bellezza, la Universal pensò bene di addebitare proprio al compositore parte della responsabilità dell’insuccesso, e Hitchcock – invece di difendere il co-autore di tanti suoi capolavori – scelse di allinearsi a questa posizione. Cosicché, quando per il successivo “Il sipario strappato” (Torn curtain, 1966) il regista si azzardò a chiedere a Herrmann, sulla scia delle pretese della major, una musica “adattata” ai tempi nuovi e quindi di stampo jazz-pop, meglio se con una title-song discograficamente spendibile, si sentì rispondere – o meglio urlare – «Io non scrivo canzoni!! Io scrivo musica per film!». Invettiva sin troppo esplicita sulla dignità che Herrmann attribuiva a questo genere musicale, cui seguì la consegna di una partitura che è forse tra le creazioni più violente, telluriche e neoespressioniste mai composte dal musicista (anche questa fortunatamente tramandataci in più edizioni discografiche). Era chiaeramente una provocazione e altrettanto ovviamente Hitchcock la respinse, per di più in malo modo, sostituendola con un lavoro dignitosamente appiattito sui moduli “moderni” richiesti dalla major, a firma di John Addison: troncando così bruscamente, insieme ad un rapporto personale, una collaborazione che rimane tra gli esempi più luminosi di un sodalizio regista-compositore.
Anche ciò che seuì a questo divorzio artistico, e al successivo trasferimento di Herrmann in Inghilterra, conferma lo status di indipendenza e il rigore morale e artistico che il compositore annetteva al proprio lavoro. Carico com’è di un pedigree (il termine non è casuale. Herrmann adorava i cani, assai più degli umani…) così illustre e caratterizzato, viene ben presto avvicinato da registi, europei e non, che in lui vedono un testimonial della grande Hollywood musicale e in particolare degli anni d’oro hitchcockiani, ma che ne apprezzano soprattutto l’intransigenza culturale e la sontuosità dello stile.: sino al congedo nel segno di un jazz cupo e notturno, appunto per “Taxi Driver”. Così accade per François Truffaut e i suoi “Fahrenheit 451” (Id., 1966) e “La sposa in nero” (La mariée était en noir, 1968), e soprattutto per Brian De Palma che rivisita “Psyco” in “Le due sorelle” (Sisters, 1973) e “Vertigo” in “Complesso di colpa” (Obsession, 1976), forse la vetta assoluta di questa fase del musicista.
Ma Herrmann trova modo di battezzare con la propria sofisticata scrittura anche piccoli e spesso pregevoli thriller di registi sconosciuti o quasi, fungendo quasi da garante e valore aggiunto, per film come “Il buco nella parete” (Bezeten – Het gat in de muur, 69) del regista surinamese Pim de la Parra, prodotto da Martin Scorsese, o “The night digger” (1971, Alastair Reid), o lo splendido, hitchcockiano “Champagne per due dopo il funerale” (Endless night, 1971) di Sidney Gilliat tratto da un romanzo di Agatha Christie; ma soprattutto “Nervi a pezzi” (Twisted nerve, 1971), teso psycotrhiller inglese di Roy Boulting celebre per un motivetto fischiettato, tanto apparentemente innocente quanto inquietante e perforato da taglienti dissonanze degli ottoni con sordina, che connota il disturbato protagonista (un po’ ricordando il maniaco Peter Lorre che in “M – Il mostro di Düsseldorf”, M, 1931, di Fritz Lang, si annunciava fischiettando il tema dal IV° movimento della suite del “Peer Gynt” di Edvard Grieg), e che verrà inglobato dall’onnivoro citazionismo di Quentin Tarantino per caratterizzare il temibile personaggio di Elle Driver (Daryl Hannah), la killer guercia di “Kill Bill voll.1 e 2” (2004-2004), oltre che nell’episodio “A prova di morte” (Death proof) del suo dittico “Grindhouse – A prova di morte” (Grindhouse, 2007); per finire persino come sigla de talk show di Rai 3 “In mezz’ora” condotto da Lucia Annunziata. Un tema va detto, che rivela un’imprevedibile somiglianza con l’idea melodica principale che apre il “Gianni Schicchi” di Giacomo Puccini…
Sul piano del profilo professionale e del carattere personale nulla potrebbe differenziare di più Herrmann da Šostakovič. Tanto sanguigno, irascibile, rigido nelle proprie posizioni è il primo, quanto mite, malinconico, dubbioso e bisognoso di rassicurazioni è il secondo. Che opera, ovviamente, in un contesto ben diverso. Il contesto è quello dei primi anni successivi alla rivoluzione del ’17, con la sua possente ventata di innovazione e sperimentazione in tutte le arti, stroncata poi dai dettami del realismo socialista e dal giogo di Iosif Stalin, esercitato attraverso il suo plenipotenziario per gli affari della cultura Andrej Aleksandrovič Ždanov. Una situazione che renderà il compositore per tutta la vita un formidabile strumento di propaganda nelle mani del potere, ma anche un ostaggio da sorvegliare e all’occorrenza minacciare costantemente; e che lo renderà psicologicamente ancora più fragile, persino dopo la morte di Stalin, cui sopravviverà per ventidue anni ma senza mai liberarsi di quell’ombra. Un conflitto che al cinema ha trovato espressione nell’aspro e discusso “Testimony” (Id., 1987) di Tony Palmer, regista britannico specializzato in biopic dedicati a musicisti classici (suoi il “Wagner” con Richard Burton e un “Puccini” con Robert Stephens), tratto dall’ancor più discusso (e contestato) memoir pubblicato nel 1979 da Solomon Volkov, biografo di Šostakovič dipinto dall’autore come un dissidente ante litteram. Qui il compositore, interpretato con la consueta straordinaria adwesione da Ben Kingsley, vive e lavora in un costante, pesantissimo, opprimente rapporto e confronto – financo sul letto di morte – con la presenza del dittatore, in una commistione spesso insopportabile di oneri e onori. Un tema, quello dell’odio-amore con Stalin, che emerge anche, e molto più nitidamente, nello splendido, affettuoso e coinvolgente documentario-intervista con il compositore “Sonata per viola” (Al’tovaya Sonata: Dmitrij Shostakovich , 1989) di Semën Aranovič e Aleksandr Sokurov.
Eppure Šostakovič, nato un anno dopo la fatidica Prima Rivoluzione e promettente adolescente ai tempi della seconda e decisiva, era e rimarrà sempre un convinto assertore del marxismo nella sua fase più rivoluzionaria e dialettica, leninista senza tentennamenti e inizialmente fiducioso in un radicale rinnovamento delle arti che per quanto lo riguardava non poteva che attraversare come una folgore la musica, e di rimando la musica per il cinema: linguaggio, questo, che il compositore amava e apprezzava molto. Ricambiato, c’è da dire, forse oltre le sue stesse aspettative: a cominciare dall’utilizzo frequente di sue musiche nei più diversi contesti, da “Fantasia 2000” della Disney alla risonorizzazione nel ’76 della “Corazzata Potemkin”, da Cuarón a Lanthimos, sino ai “Fascisti su Msrte” di Corrado Guzzanti, anche se qui ricorderemo soprattutto “I sequestrati di Altona” (1962, Vittorio De Sica), tratto dal dramma di Jean-Paul Sartre, la cui parte musicale consiste nel terzo movimento, il solenne e dolente “Adagio – L’eterno ricordo” tratto ancora dall’Undicesima Sinfonia dedicata ai fatti del 1905 ed elaborato dal grande direttore d’orchestra Franco Ferrara; nonché l’ormai onnipresente “Waltz” della “Suite per orchestra di varietà n.2”, una pagina spensierata e vagamente irridente, scritta nel 1938 alla vigilia dello sciagurato patto Molotov-Ribbentrop, e che l’insaziabile cultura musicale di Stanley Kubrick appose a sigillo (ed epitaffio) del suo cinema, in chiusura di “Eyes wide shut” (Id., 1999), ma che si riascolta un po’ dappertutto, spesso totalmente fuori contesto come nella sigla finale della trasmissione “La torre di Babele” condotta su La7 da Corrado Augias.
Ma l’apporto diretto di Šostakovič al cinema, che sfiora i 200 titoli fra composizioni da lui appositamente scritte, citazioni o prelievi postumi e documentari, comincia ben prima. Comincia quando, per mantenersi al Conservatorio di San Pietroburgo improvvisava (sembra con stupefacente abilità) al pianoforte le musiche per i film muti; un’attività che lo affaticava molto e di cui si lamentava spesso, ma che si rivelerà decisiva proprio nella stesura delle prime, dirompenti partiture per il grande schermo. Questa fase, che coincide con l’adolescenza precocemente creativa e poi la prima giovinezza del maestro, comprende la Sinfonia n.1 in fa minore op.10, composta tra i 17 e 19 anni e destinata a strepitoso successo, prosegue con la Seconda e Terza, entusiasticamente dedicate al decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e al Primo Maggio, sfocia nell’opera “Il naso” (1928), da Gogol’, di inaudita violenza espressionista e che ispirerà nel 2020 il geniale e dirompente film di animazione “Il naso o la cospirazione degli anticonformisti” (Nos ili zagovor netakich) di Andrej Jur’evič Chržanovskij, e si arresterà bruscamente solo nel 1936 con la sfortunata messa in scena moscovita, dopo due anni di grandissimi successi, di “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”: violentissima opera di sesso, sangue e morte tratta dalla novella di Leskov, il cui linguaggio spregiudicato e avveniristico incontrerà i fulmini di Stalin e della Pravda (celebre la sinistra chiosa della recensione: «un gioco che per il compositore potrebbe finire male»), bollando l’autore dell’accusa di “Formalismo” che equivaleva a una maledizione e spingendo l’impaurito compositore a mettere nel cassetto per oltre un quarto di secolo la sua esplosiva, colossale Quarta Sinfonia e a ripiegare sulla più conciliante e convenzionale oggi popolarissima, Quinta (va detto che la “Lady Macbeth” di Šostakovič è destinata, per il cinquantenario della morte e con scelta davvero coraggiosa di questi tempi da parte del neosovrintendente Fortunato Ortombina e del direttore musicale – al suo congedo – Riccardo Chailly, a inaugurare la prossima Stagione lirica 2025-2026 della Scala di Milano).
In questo decennio e più, l’approccio di Šostakovič al cinema è infiammato dalla stessa ricerca del nuovo, in perfetta sintonia con lo sperimentalismo e il rifiuto di quel realismo “piccolo-borghese” che poi, travestito da “sano ritorno alle tradizioni del popolo” ammorberà per decenni la vita culturale dell’Unione Sovietica. Per il russo, come avverrà di lì a pochi anni per il suo collega statunitense, il cinema è uno straordinario campo di esercitazione, un gigantesco e inesplorato laboratorio linguistico che spazia da suggestioni futuriste a squarci espressionisti, dal recupero critico del folklore russo all’omaggio alla grande tradizione operistica di Musorgskij. Il manifesto di questo periodo è il grandioso “La Nuova Babilonia” (Novyj Vavilon, 1929, Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg), poderosa ricostruzione della Parigi del 1870-1871 e delle vicende della Comune sullo sfondo della guerra franco-prussiana: Šostakovič vi riversa tutta la propria fantasia timbrica e ritmica, con un metodo che non è certo quello della semplice (ma neanche tanto…) “sottolineatura” psicologica di eventi o sentimenti in voga a Hollywood, ma piuttosto di una reinvenzione parallela in musica di ciò che scorre sullo schermo (ricordiamo che il film è muto), con straordinari effetti di suggestione emotiva e percettiva.
Kozincev e Trauberg sono due registi cui, in coppia o separatamente il compositore offrirà spesso il proprio contributo, identificandosi nella loro ricerca e nel loro stile visionario e anticonformista. Già in “Sola” (Odna, 1931), storia di un’insegnante idealista, fervente leninista e sognatrice destinata ad aspre disillusioni, negli autori comincia a incrinarsi, anche grazie all’apporto vibrante e chiaroscurato di Šostakovič, quell’ottimismo propagandistico che caratterizzerà l’avvento di Stalin. Tra l’altro in questi primi film muti il musicista mette a frutto, moltiplicata nel potenziale di un’orchestrazione rigogliosa ed estremamente selettiva, l’esperienza maturata come accompagnatore pianistico.
L’operaista e “proletario” “Le montagne dorate” (Zlatye gory, 1931) di Sergej Jutkevič, ispirato ad un classico di Vsevolod Pudovkin quale “la fine di San Pietroburgo” (Konets Sankt-Peterburga 1927), pare già annunciare l’esigenza di abbandonare ricerche troppo sofisticate e tornare su temi più utili al regime, ma per Šostakovič, che quell’ideologia ancora condivide in toto e di cui non ha ancora sperimentato sulla propria pelle la frusta, è un’altra occasione di rimescolamento di stili e di vulcanica, esondante passionalità sinfonica intrisa di un “modernismo” sfrenato. Vale in particolar modo per la partitura, squadrata e assertiva, non priva di quell’humour nero e grottesco che è uno dei tratti stilistici propri del compositore, de “Il contropiano” (Vstrechnyy, 1932, di Jutkevič e Fridrich Ėrmler), strenua e “didattica” difesa del Primo Piano Quinquennale contro le malefiche manovre dei sabotatori controrivoluzionari.
In reltà, anche negli anni successivi, quelli del Grande Terrore e delle mostruose purghe staliniane, mentre da un lato passa le notti vestito con la valigia pronta nella convinzione di essere arrestato, dall’altro Šostakovič continua a sentirsi investito in prima persona della missione di veicolare attraverso la propria musica – ed in particolare quella per il cinema – gli ideali dela Rivoluzione, quantunque ormai soffocati nel sangue dal pugno di Stalin. Una tendenza che, con l’avvio da parte di Hitler dell’Operazione Barbarossa e dell’invasione nazista dell’Urss nel ’41, e quindi della Grande Guerra Patriottica, si farà assoluta e dominante, caratterizzata da architetture sonore di proporzioni epiche che avevano già trovato piena esplicazione nella cosiddetta “Trilogia di Massimo” (1936-1939) di Kozincev e Trauberg, formata da “La giovinezza di Massimo – Il Bolscevico”, (Junost’ Maksima – Bol’sevik), “Il ritorno di Massimo” (Vozvrascenie Maksima) e “Quartiere di Vyborg” (Vyborgskaja Storona): un gigantesco bassorilievo sull’irresistibile ascesa di un giovane rivoluzionario contro il potere zarista negli anni dal 1907 al ’17:qui Šostakovič sembra riassumere tutte le connotazioni stilistiche del proprio sinfonismo, tra grandiose perorazioni sonore, oasi cameristiche e continui richiami alle tradizioni popolari. Un atteggiamento sincero e partecipato, che sembra dimentico dei passati (e ancora ignaro dei futuri) scontri col regime, unicamente devoto a sostenere con la propria arte la forza di un paese e di un popolo che sente già avvicinarsi la guerra; quella guerra durante la quale Šostakovič comporrà nel ’41, nella Leningrado martoriata dall’assedio nazista, la sua sinfonia forse più celebre, la Settima, intitolata appunto alla città, opera la cui tragica grandiosità non ha più nulla a che vedere con i toni esageratamente e provocatoriamente trionfalistici con i quali, ad esempio, il musicista aveva chiuso la sua Quinta “ravveduta”, con un effetto caricaturale evidente ma fortunatamente non percepito dall’occhiuto quanto ottuso regime stalinista. Le esigenze belliche, del resto, avevano riportato sulla “retta via” anche grazie al cinema, altri compositori sorvegliati speciali da Stalin, come ad esempio Sergej Prokof’ev che con la sua magnifica partitura per l'”Aleksandr Nevskji” di Ėjzenštejn si era guadagnato, dopo alcune deviazioni “formaliste”, il perdono del Capo («dopotutto, Sergej Sergeevič, siete un buon bolscevico!»).
A guerra finita e vinta, a prezzo di 20 milioni di morti da parte dell’Urss, Šostakovič sembra voler riflettere più sui terribili esiti del conflitto e sulle macerie lasciate che sui frutti della gloria. Accade così che in un film di purissima propaganda postbellica come “La caduta di Berlino” (Padenie Berlina, 1949, Michail Čiaureli) o “Mičurin” (Id., Aleksandr Dovženko), dedicato alla figura di un eroico agronomo ucraino (altri tempi…) il musicista, accanto ai dovuti toni retorici, si soffermi anche su colori più sfumati e ripiegamenti di riflessiva mestizia.
Dopo la morte di Stalin e il lento inizio del “disgelo” (ancora più lento per quano riguarda l’aspetto culturale) Šostakovič rimane comunque, in veste di autore di musica per film, un riferimento storico e quasi mitico imprescindibile: così una intricata vicenda di recupero di opere d’arte nella Dresda in rovina del ’45 (“Cinque giorni e cinque notti”, Pyat dney – pyat nochey, 1960, Leo Arnštam) diviene occasione per una delle sue partiture filmiche più raffinate, meditative e moderne, e “Sof’ja Petrovskaja” (1967, del medesimo regista), sulla figura di un’aristocratica votatasi alla causa della Rivoluzione, un modo disincantato ma sempre vibrante di partecipazione per tornare su tonalità celebrative e “ideologiche” ma in una chiave più critica e ironica.
Il vero, importante lascito di questa fase finale della carriera di Šostakovič nel cinema è tuttavia racchiuso nel dittico shakespeariano dove, tra il 1964 e il 1971, il musicista ritrova Grigorij Kozincev rispettivamente in un “Amleto” intensissimo e asciutto, scritto da Boris Pasternak e girato in un fulgido bianco e nero, e in un “Re Lear” (Karoli Lir) che, oltre ad essere in assoluto il primo film sonoro ricavato da questa tragedia, si caratterizza per una profonda e sofferta influenza da tematiche dei decenni precedenti quali la paura dell’atomica e lo spettro mai sopito dei totalitarismi,. Il musicista ritrova qui intatto quel sentimento tragico, violento e desolato, frutto del suo innato pessimismo, che nelle primissime opere si accompagnava ad un entusiasmo ideale e creativo ma che ora, come appare anche nelle ultime delle sue quindici sinfonie, è velato da un cupo presagio di fine. Questo aspetto, in particolare, emerge con adamantina chiarezza nell’interpretazione che Bernard Herrmann fornisce, come ricordato all’inizio, della suite dall'”Amleto”, con colori orchestrali abbaglianti e taglienti e una impressionante chiarezza espositiva.
Nei primi anni ’70, poco prima della morte, Šostakovič rilasciò, in una Zagabria invernale e ancora completamente sovietizzata, una lunga intervista al musicologo Giuseppe Pugliese; un colloquio, rigidamente filtrato da un interprete/censore, intessuto di ammissioni e reticenze, sfoghi e titubanze. Celato dietro le spesse lenti da miope e da un muro di fumo di sigarette, già malato, Šostakovič apparve completamente preda della condizione che forse lo ha accompagnato per tutta la vita e che certamente alla fine lo dominava. La solitudine.
Tuttavia, anche in questo isolamento più o meno volontario, risalta l’analogia con la figura di Herrmann, a sua volta “reietto” da Hollywood ma fieramente ancorato ai propri principii e al proprio status. Diversi, certo, i rispettivi contesti e percorsi: ideologico, sociale e politico per il russo, professionale, squisitamente artistico e individuale l’americano. Ma con il cemento comune di una indeflettibile tensione morale.
di Roberto Pugliese