The Sweet East

La recensione di The Sweet East, di Sean Price Williams, a cura di Guido Reverdito.

Durante una gita scolastica a Washington, D.C., la studentessa liceale Lilian assiste in un ristorante all’attacco di un uomo armato convinto che l’istituzione ospiti un giro segreto di pedofilia. Salvata da un attivista politico anarchico, a seguito di una serie di coincidenze casuali, entra in contatto con un professore universitario di estrema destra e simpatizzante nazista, il quale la ospita nel proprio appartamento dove Lilian scopre che a casa la stanno cercando e la credono vittima di un rapimento (anche se lei nel frattempo contatta un’amica per rassicurarla sul proprio conto).

Durante un viaggio a New York, con una scusa astuta sottrae al suo ospite una borsa piena di dollari che il professore nazistoide ha ricevuto da uno skinhead, e quindi scappa finendo con l’imbattersi in una troupe che sta girando un film a Manhattan: colpiti dalla sua naturalezza, regista e produttore la scritturano a sorpresa per la parte principale. Non ostante la totale impreparazione, Lilian impressiona tutti. Compreso il coprotagonista, un attore famoso con cui la ragazza ormai pronta a tutto ci mette un attimo a intavolare una relazione finendo fotografata sui tabloid. Il che permette allo skinhead di rintracciarla e di presentarsi sul set insieme a una manciata di sodali con cui spara all’impazzata falcidiando metà della troupe per la rabbia di non aver ritrovato il maltolto. Uno dei tecnici sopravvissuto alla strage la mette in salvo portandola in una comune a trazione islamica diretta dal fratello.

Mentre inizialmente rimane lì nascosta in un fienile per paura che gli skinhead la stiano ancora cercando, trova un giornale tramite il quale apprende della loro cattura da parte della polizia. Fuggita anche da questo suo nuovo rifugio, crolla sfinita per risvegliarsi in un monastero dove un sacerdote le dice che è stata salvata dal congelamento e che la polizia è stata informata di dove si trova. Tornata a casa, Lillian scopre che i suoi compagni di classe sono molto cambiati. E mentre i membri della sua famiglia assistono basiti ai notiziari in TV su un attacco terroristico in uno stadio di calcio che ha causato decine di migliaia di morti, esce di casa e sorride sarcastica guardando nella telecamera.

Esordio alla regia di Sean Price Williams, regista e documentarista molto attivo nella scena indie di New York, visto a Cannes lo scorso anno nella sezione della Quinzaine, questo The Sweet East (dove l’est del titolo si riferisce alle peripezie della protagonista che avvengono in serie lungo la costa orientale degli USA) è un anomalo road movie in cui le tonalità del coming of age si mescolano con quelle della comedia satirica a sua volta corretta da tocchi surreali. Se i difetti tipici dell’esordio non mancano di certo (dalla voglia di dire tutto che spesso diventa troppo, al citazionismo esasperato – vedasi il richiamo musicale al Morricone di Giù la testa, per arrivare fino ai molti movimenti con camera a mano di stampo autorale), va però detto che questo lungometraggio d’esordio si fa apprezzare come una sorta di bignami quasi onnicomprensivo di tic, storture e contraddizioni di un paese che pretende di dare lezioni di democrazia al mondo, ma che di fatto è l’incubatrice perfetta di fanatismi ed estremismi di ogni sorta, a loro volta responsabili di fomentare schegge impazzite che annegano nel terrore la rabbia sociale.


di Guido Reverdito
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