Opus – Venera la tua stella

La recensione di Opus - Venera la tua stella, di Mark Anthony Green, a cura di Francesco Parrino.

Alfred Moretti (John Malkovich) è una leggenda. Le sue canzoni hanno ispirato generazioni, la sua musica è un fenomeno globale e la sua vita – sospesa tra realtà, mito e gossip – incuriosisce e anima appassionati in ogni angolo del mondo, soprattutto da quando si è ritirato dalle scene. Ora, dopo oltre 20 anni di silenzio, Moretti annuncia che uscirà un suo nuovo album. Per promuoverlo, invita in un ranch isolato un gruppo selezionatissimo di critici ed esperti di musica tra cui il giornalista Stan Sullivan (Murray Bartlett), la presentatrice televisiva Clara Armstrong (Juliette Lewis), la paparazza Bianca Tyson (Melissa Chambers), l’influencer Emily Katz (Stephanie Suganami) e il podcaster Mark Sivertsen (Bill Lotto). Con loro Ariel Ecton (Ayo Edebiri), giovane redattrice di belle speranze e collaboratrice di Sullivan a caccia di una storia da raccontare. Ovvero Opus – Venera la tua stella (da qui in avanti solo Opus), opera prima di Mark Anthony Green e nuova follia cinematografica targata A24, al cinema con I Wonder Pictures dal 27 marzo.

Un nome, quello di Green, che magari dirà poco ai più – è pur sempre di un esordio alla regia che stiamo parlando – ma che in America circola già da parecchi anni. Dal 2010 al 2023, infatti, Green ha collaborato con GQ di cui era diventato il caposezione dei Progetti Speciali della rivista, occupandosi principalmente di spettacolo e moda. Il ché ci dice molto del contesto narrativo e dei temi di Opus, e delle sue ragioni filmiche. Oltre la cornice thriller da giallo deduttivo e le atmosfere tese da horror psicologico sanguinoso avvolte in immagini dai colori vivaci, c’è una narrazione allegorica e spigolosa dai toni surreali e grotteschi che racconta di divismo, culto di massa, fandom e lotta di classe, ma che è soprattutto un irriverente stato d’accusa di un mondo – quello dei media – da cui Green è uscito dalla porta principale per poi prenderlo di petto in tutte le sue forme e declinazioni.

In quella che ci appare come una calcolata resa dei conti di un Moretti genio folle e manipolatorio reso leggenda da un Malkovich superlativo, si cela, infatti, un attacco totale verso la società dell’informazione qui rappresentata da agenti scenici privi di effettivi contorni caratteriali perché semplici funzioni narrative svuotate di una reale dimensione. Non per questo privi di fascino e colore, sia chiaro, ma il loro ruolo, in Opus, è codificato da Green al solo scopo d’essere simulacri bidimensionali delle tante facce dei media. L’unica eccezione è la brillante Ariel di una sempre più brava e lanciatissima Edebiri, a cui Green affida la coscienza del racconto, e di cui si serve per disegnare una riflessione feroce sulla ricerca di consacrazione e sul bisogno di fama nell’epoca dei social. Non ultimo gli arrangiamenti musicali, perché se la musica di Moretti vi entrerà in testa è merito dello straordinario lavoro compiuto da Nile Rodgers e The-Dream capaci di tirare fuori, tra le tante e ottime cose, una Dina Simone assolutamente sensazionale. Nel mezzo estetiche da videoclip, un paio di momenti gore al punto giusto, soluzioni registiche ricercate e raffinate degne di un veterano, suggestioni a metà tra Blink Twice e Midsommar e se è vero che, specie nel secondo atto, lo sviluppo appare un po’ zoppicante e poco armonico, l’intelligenza di un concept dalle simili tematiche – unito al fatto che parliamo di un esordio alla regia – lasciano ben sperare per il proseguo del secondo tempo della vita di Green che con Opus fa mille volte centro regalandosi un cult di cui sentiremo parlare tanto e a lungo.


di Francesco Parrino
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