La vita accanto: intervista al regista Marco Tullio Giordana

Caterina Taricano intervista Marco Tullio Giordana, regista di La vita accanto, presentato al Festival di Locarno e ora in sala.

Tratto dal romanzo di Maria Pia Veladiano, e dopo l’anteprima internazionale al Festival di Locarno, dove il regista, Marco Tullio Giordana, è stato insignito del Pardo speciale alla carriera, arriva sugli schermi il 22 agosto, La vita accanto, un film che parla di malattia ma anche di rinascita, un film che con lucidità e grazia ci immerge nel buio della perdita per farci guadagnare la luce attraverso la potenza salvifica della musica. Un film che affonda le mani nella materia magmatica del cinema di Marco Bellocchio, che in origine doveva dirigerlo, per una metamorfosi d’autore davvero singolare nel mondo del regista di Maledetti vi amerò e La meglio gioventù. Ne abbiamo parlato con Marco Tullo Giordana subito dopo la proiezione di Locarno

La vita accanto è un film che ti è arrivato un po’ per caso, ma come spesso succede con gli incontri e le situazioni non programmate, si è rivelata un’esperienza felice, che ti ha consentito di realizzare uno dei film che ti assomiglia di più, tra gli ultimi che hai realizzato…

Sì, è vero, è un film che mi è capitato, e che anche io vedo in perfetta continuità con gli altri film che ho fatto, nonostante una parte della critica vi abbia invece visto un segno di rottura. È stato Marco Bellocchio, insieme a Simone Gattoni, che ne sono produttori, a propormelo. Si trattava di un vecchio progetto di Bellocchio abbandonato un po’ infelicemente, nel senso che gli era rimasto nel cuore, ma non si sentiva più di realizzarlo, travolto, com’è stato, da tutte le novità anche stupende di questi ultimi anni. A quel punto sono entrato in scena io. Per prima cosa ho letto la sceneggiatura e solo dopo il romanzo di Mariapia Veladiano: ho trovato  geniale l’idea di trasformare, nel film, la mostruosità che caratterizza la bambina protagonista del libro in qualcosa di molto più ordinario, una difformità anziché una deformità, infatti nella sceneggiatura il problema della ragazzina è un banale angioma sul viso. Questo cambiamento è stato fondamentale, perché ha reso possibile un’identificazione e anche una condivisione del “problema del corpo”, del non sentirsi a posto, del non essere perfettamente conforme rispetto a chi è inevitabilmente e per sempre mostro, una condizione che avrebbe generato un altro tipo di rapporto tra il personaggio e lo spettatore, pensiamo a The Elephant Man, o ad altri film che hanno trattato quel tema che non fa scattare un meccanismo di identificazione, se non in maniera molto indiretta. Invece parlare della diversità di chi ha un segno che lo marchia, un segno che lui non vede, ma che vedono gli altri (e che forse è più un problema degli altri che suo), beh mi è sembrata un’intuizione geniale. Dopo la sceneggiatura –  firmata oltre che da Bellocchio anche da Gloria Malatesta –  come dicevo, ho affrontato il romanzo e mi sono inserito all’interno di un processo di riscrittura, in cui talvolta ho sentito la necessità di cambiare delle cose del libro, altre volte di ricalcarlo e altre volte ancora di allontanarmi completamente. Ma questo è, credo, un movimento fondamentale per fare propri i progetti, per metterseli addosso, come si fa con una vecchia giacca sformata, ma che porta tutti i segni di te, per non eseguire la regia come un puro, freddo professionista, o tentare di fare un calco dei film di Bellocchio. In questo senso per me è stato importante anche collocare la storia in uno spazio tempo diverso da quello che si intuisce nel romanzo e nella sceneggiatura, ovvero dei vaghi anni 60-70. Ho deciso di spostarmi negli anni 80-90, sfiorando l’inizio del nuovo millennio, in fondo i due decenni precedenti li avevo già raccontati in tanti film e volevo un po’ distaccarmene. Comunque la collocazione storica ha un’importanza relativa in questo film, perché il tema è universale: vale per tutti i tempi, è sempre stato così e temo che sarà sempre così: ci sarà sempre il rigetto della difformità…

Oggi più che mai, direi, pensando che viviamo nell’era del culto dell’immagine, dell’ossessione per il corpo, della ricerca nevrotica della perfezione fisica: siamo dominati da un’idea statica della bellezza che facendo sentire tutti fuori posto non può che passare inevitabilmente dalle mani del chirurgo plastico…La nostra è per eccellenza la società che respinge il non conforme, non pensi?

Certo, e mi sento come davanti al Golem, a Frankenstein. Osservo con sgomento tutto questo: una persona che deve intervenire chirurgicamente sul proprio corpo perché non si piace mi sembra un’assurdità. Oltretutto sono tutte operazioni che non durano nel tempo. Vedo anche delle ragazze giovanissime che si “infiltrano”, si “botulinano”, si rifanno pezzi, e mi chiedo: ma non si rendono conto che fra dieci anni saranno tutte uguali? In passato l’idea di uniformità era nella testa, nei gusti, nel seguire la moda. Adesso è proprio nella modificazione del corpo, quanto di più sacro noi abbiamo, visto che corpo e anima per me sono la stessa cosa: per me è come se uno incidesse la propria anima. Prima l’anima si vestiva, adesso si distrugge e si ricostruisce con risultati inquietanti.

Un altro grande tema che affronti in questo film è quello bellocchiano della famiglia come luogo di nevrosi e manipolazioni, ma se in un film di Bellocchio la storia avrebbe avuto anche un risvolto sociale, concentrandosi soprattutto sulla malattia, tu vai oltre e racconti la terapia, mostrandoci la famiglia anche nella sua capacità di generare grandi amori…

I dilemmi e le convulsioni familiari sono nella tradizione del nostro più grande cinema, ma Visconti, ad esempio, sosteneva che i grandi amori impossibili sono solo nella famiglia, ed è vero perché la famiglia si regge sul tabù dell’incesto e quindi i più grandi amori della nostra vita, che sono il padre, la madre, i fratelli, le sorelle, sono impediti a essere consumati. Questo crea inevitabilmente una nevrosi. Marco Bellocchio, quando gira I pugni in tasca, eredita questa nevrosi e la esplicita, anticipando il 68, e innesta su questa tradizione il meccanismo dell’esplosione anziché dell’implosione. Nel mio film il personaggio imploso, Osvaldo, interpretato da Paolo Pierobon è proprio l’essenza di questo: le buone maniere, l’educazione, la riservatezza, il dover sembrare agli altri sempre a posto, sempre con la cravatta giusta, con la camicia stirata…  questo essere così dal di fuori impeccabile, e dentro “franato” da tutte le parti, come senza più scheletro, ecco questo per me è qualcosa di molto evidente – ma non riguarda solo la famiglia borghese. Non è la borghesia, è tutta, proprio tutta la famiglia che costruisce ciò, ed è molto difficile uscirne.

Però nel tuo film c’è una liberazione finale, no? In qualche modo la protagonista spezza questa catena. E così anche nel romanzo o è un finale a cui sei arrivato tu?

Nel libro la conclusione è un po’ diversa, la ragazza continua con la sua carriera di pianista, ma c’è una fuga a Londra che mi ha ispirato e mi ha dato modo di pensare ad un finale differente. L’aspetto profondamente diverso è che il romanzo è il racconto dell’ineluttabilità della bruttezza e della “condanna a morte” di chi ne è portatore. Nel mio film, invece, non è così. La pena è sospesa, anzi forse la pena non c’è, perché non c’è mai stata la colpa. La ragazza, ormai adulta, capisce che della nevrosi per la quale ha perduto la madre non sono lei e la sua macchia ad esserne la causa, ma è l’idea, l’ossessione, magari anche sbagliata, della madre di pensare che ci fosse un rapporto incestuoso fra suo marito e la gemella: ecco, quando capisce che è quella la ragione per cui la madre si è buttata dalla finestra, allora guarisce. Perché questa macchia è fuori di lei.

E guarisce anche fisicamente…

Sì, può succedere davvero. Mi sono informato da alcuni luminari dermatologi, e mi hanno detto che è rarissimo, un caso su un milione, ma può capitare. Così ho aggiunto quella scena in cui vanno dal medico che la esamina, e lui è il primo a esserne sorpreso, perché come lui stesso confessa: l’ultima cosa in cui crede è la scienza. Però non crede neanche in Dio, quindi non può nemmeno invocare il miracolo. Siamo nel buio, nel mistero.

Parlando del personaggio della madre, Maria –  interpretato da Valentina Bellè che riesce a toccare tutte le sfumature di una “discesa agli inferi” davvero commovente –  è molto interessante come riesci a trattare il tema della depressione post parto: non solo nella rappresentazione di chi la vive, ma anche raccontando la responsabilità di chi non si accorge, di chi non vuole vedere, talvolta non per indifferenza ma per incapacità personale o per troppo amore, perché non si riesce ad accettare che la persona amata stia irrimediabilmente male…

È un aspetto che mi piaceva molto: marito e moglie si amano, ma non solo loro, tutti si vogliono bene in quella famiglia. Anche Erminia, la cognata, ama Maria e Maria stravede per Erminia, pure essendone gelosa. Sono ognuno lo specchio dell’altro, ognuno vorrebbe un po’ essere l’altro. Devo dire che la grandissima Valentina Bellè ha fatto un prodigio. Io me ne sono accorto immediatamente, da quando ha fatto il provino. A onor del vero nemmeno gliel’ho fatto finire, perché dopo poche battute ho capito che Maria era lei. La sua è un’interpretazione istintiva capace di restituire una sofferenza enorme: quel disagio mentale, che ripugna tutti, perché quando si vede l’insorgere della follia uno vorrebbe solo scappare, ma lei è riuscita da subito a esprimere anche la speranza di venirne fuori. Anche se poi non sarà così. È il bello degli attori: ti regalano cose inaspettate che si rivelano fondamentali.

Tu però hai lasciato loro spazio, e questa è anche la grande capacità dei registi che amano gli attori. Spesso hai detto che all’inizio della carriera eri innamorato della macchina da presa ma poi ti sei innamorato degli attori… in questo film lo dimostri ancora una volta, giocando anche su tipologie di recitazione opposte, penso a quella estroflessa della Bellè nel personaggio di Maria in contrapposizione ad esempio con quella di Pierbon, nei panni di Osvaldo, il marito, che procede per implosioni continue, o anche all’interpretazione così misurata, ma così ricca di colori diversi di Sonia Bergamasco, che nel film è Erminia, capace di restituire tutta la complessità di un personaggio affascinante anche per il suo talento come musicista.

Sì, da giovane ero innamorato della macchina da presa perché quando ero ragazzino sognavo di fare il cinema, ma io ero innamorato sia di Bellocchio che di Bernardo Bertolucci, di cui però evidentemente vedevo solo l’aspetto esteriore, la bellezza dei movimenti voluttuosi della macchina. Ho pensato: che bello, questo è il cinema! Ed è vero. Ma anche in Bernardo Bertolucci tutta quella voluttà finisce poi per trovare il suo fuoco sugli attori. E Infatti anche lui, come Bellocchio, era un altro meraviglioso direttore di attori, che ha sempre tirato fuori dai propri interpreti delle cose fantastiche. Quando ho capito questo, ho compreso anche che non dovevo smettere di amare la macchina da presa, ma che semplicemente potevo usarla in maniera più discreta. Perché quello che tocca veramente è la trasmissione quasi magnetica, direi ipnotica che un attore, se è bravo, è capace di generare in un film. Alla fine, è quello ciò di cui ti ricordi. Faccio un esempio: nel film Innamorarsi c’è una scena in cui Meryl Streep è seduta insieme a Robert De Niro ad un tavolino e si vede benissimo, nelle varie in quadrature che c’è una mosca che gira e che rompe molto le scatole. Ad un certo punto la mosca si posa sulla guancia di Meryl Streep, in quel momento si intuisce che lei per un attimo pensa: “cosa faccio, chiedo lo stop? No, la uso!”. E fa un gesto con la mano per scacciarla. È un movimento così delicato… come dire: non voglio fare un gesto brusco per non rompere l’incantesimo di questo nostro dialogo. Insomma un attore capace di fare una cosa così per me è un genio (comunque, di lei, lo pensavo ben prima di questo film).

Questo è anche un film sul femminile, che riesce a costruire dei ritratti diversi e sfaccettati di donne, personaggi che hanno una ricchezza, una complessità non comune, pensando al cinema italiano di oggi. È interessante come li racconti nel modo che hanno di relazionarsi, nei loro piccoli e grandi contrasti, nelle loro zone di ambiguità: senza che nessuno sguardo li sottoponga a giudizio.

Anche nel libro c’è questo sguardo non giudicante sui personaggi. E io trovo che sia quello giusto, quello che bisognerebbe sempre avere, ma non solo nei riguardi del cinema e dei suoi personaggi, ma anche nella vita, perché, come fa dire Renoir in La regola del gioco: tutti hanno le proprie buone ragioni, anche se questo non deve impedire di prendere una posizione. Il cinema non deve essere un pubblico ministero, deve osservare, mostrare, evitando di dare troppe spiegazioni.

Hai detto che nel film i personaggi sono uno lo specchio dell’altro, proiettando su chi è vicino ciò che vorrebbero essere, pur intrecciando percorsi opposti. Si parla, infatti, di una donna che perde se stessa, Maria, ma anche di una che scopre se stessa, sua figlia, legate, al di là della frustrante incapacità di comunicare, da un’altra importantissima e salvifica presenza: la musica. Quanto è stato difficile filmare la musica?

Non è stato difficile: l’idea era quella di non voler truffare lo spettatore. La musica che si vede è quella che si sente. Non avrei mai potuto mostrare un attore che fa finta di suonare. Ho pensato subito ad attori capaci di farlo. Sonia Bergamasco è addirittura diplomata in pianoforte, avrebbe potuto tranquillamente fare la carriera della strumentista. Stessa cosa vale per Beatrice Barison, che interpreta Rebecca, la figlia di Maria da grande. Lei è una pianista di professione, che insegna, l’ho scovata girando per i conservatori.  Ne avevo trovate altre interessanti, ma hanno rifiutato perché non si sentivano in grado di recitare. Beatrice, invece, per fortuna ha detto sì. E menomale. Perché ho capito subito che era molto dotata. Questa è la sua prima volta sullo schermo. Insomma, suonano tutti dal vivo, comprese le ragazzine più piccole, Sara Ciocca e Viola Basso, che interpretano anche loro Rebecca in età differenti. In realtà diverse persone non hanno capito che la musica era suonata dal vivo. Mi chiedo come si faccia – visto che l’inquadratura su loro che suonano è unica: va dalla faccia alle mani, e ritorno. Per me era importante che la musica fosse reale, perché ai film in cui capisci che c’è una piccola truffa nemmeno ti appassioni. Se tu sai che l’attore sta suonando davvero sei molto più attento, anche solo per una piccola vena di sadismo che ti porta a controllare se sbaglia e questo crea suspense. Un po’ come quando c’è un morto sulla scena. Cosa fai quando un attore fa il cadavere? Guardi subito se riesce davvero a stare in apnea, e per quanto tempo, senza che si veda. Sei morto? Allora fammelo vedere! Inoltre, vedere un attore che finge di suonare è davvero ridicolo. Si capisce subito, perché i musicisti hanno delle facce incredibili mentre suonano. Certe volte sembra di assistere a delle scene d’amore, quasi orgiastiche: smorfie, sofferenze, respiri…

Nel tuo film si sente anche tutto il peso della fatica, del lavoro del musicista…

Certo, e questo è anche il bello della musica, che ti obbliga ad avere la disciplina di un atleta, di uno sportivo che si allena ossessivamente, e ripete gli stessi esercizi milioni di volte e poi finalmente arriva all’estasi alla liberazione, perché poi quando l’interprete si dà, lo fa dentro uno schema assai rigido. Parlo della musica classica, naturalmente, che viene eseguita all’interno dello spartito, un testo musicale che ha scritto l’autore, che ha dato una durata, un tempo, un ritmo, ma dentro quello schema c’è poi la massima libertà. Infatti se uno sente esecuzioni diverse di una stessa composizione, sente proprio musiche diverse.

Tu sei anche un musicologo, tra l’altro

Ma no, io non sono niente. Io ho suonato da dilettante la chitarra classica negli anni della giovinezza. L’ho abbandonata, e ogni tanto la riprendo dannandomi perché mi sembra di essere un cane. Ogni volta ripeto a me stesso: mettiti a fare degli esercizi! E poi ho sentito tanta musica, sono andato a tutti i concerti possibili. Quando vivevo a Milano ero sempre alla Scala. Per me la musica è l’assoluto, potrei dire Dio: ecco, io non credo in Dio, ma credo nella musica!

Tornando alle due attrici musiciste che interpretano Rebecca, è molto bello il modo in cui, attraverso le loro differenti preparazioni, racconti l’evoluzione e la crescita della protagonista che via via diventa più brava…

È per questa ragione che ho voluto tutte musiciste. Sara Ciocca, che interpreta Rebecca a 11 anni, è bravissima e non ho avuto dubbi sulla scelta. Ho dovuto però cambiarle il colore degli occhi. Lei ha dei bellissimi occhi azzurri mentre la protagonista li ha castani, così le abbiamo fatto indossare delle lenti nere per assomigliare alla Rebecca piccolina e alla Rebecca grande. Anche Viola Basso, che è Rebecca a 6 anni, sapeva suonare. È alle prime armi, però quello che le vediamo fare al pianoforte è tutto vero. Mette le mani esattamente come e dove devono essere messe.

Tra l’altro c’è proprio una scena in cui questo progresso si coglie, ovvero quando la zia di Rebecca, Erminia, tornata da un concerto, la sente suonare in un modo diverso e capisce che la nipote ha avuto un’evoluzione, che è diventata più brava, e che ha davvero un talento innato.

Eh sì, Erminia sente suonare degli accordi di terza, accordi che la bambina ha individuato evidentemente da sola, istintivamente, capendo che quegli intervalli sono amici, suonano bene. La zia, in questo modo, si rende conto del talento di Rebecca e anche del rapporto che lei ha con la musica. Per questa scena devo ringraziare Dario Marianelli, il compositore del film. Mi ha dato lui questo suggerimento, frutto di una casualità, perché per caso, ascoltando la figlia al pianoforte, si è accorto che intuitivamente, senza che nessuno glielo avesse insegnato, faceva questo tipo di accordi. Così l’ha registrata, e questa registrazione l’ho usata nel film: quelle note lì, per cui la zia capisce che lei ha un talento naturale e indiscutibile, sono composte dalla figlia di Dario Marianelli, che me le ha regalate.

Anche rispetto alla recitazione riesci a creare una continuità tra queste attrici, e non essendo delle professioniste, immagino non sia stato cosi semplice…

No, ma non è stato neanche troppo difficile. Basta trovare la tecnica adatta e con i ragazzini è fondamentale. Un bambino a cui imponi un copione il massimo che può fare è ripetertelo a macchinetta e non era certo quello che volevo io. Per ottenere da loro verità devi farli giocare che poi è l’essenza della recitazione. Cosi ho fatto con Viola Basso e Flora Zambello, la bambina che impersona l’amica Lucilla da piccola. Al provino avevano delle battute precise ma non funzionavano, così ho cambiato tutto. Ho proposto loro un gioco: “fate finta che una è la regina d’Inghilterra – ho detto – e l’altra è la principessa del Lussemburgo che le fa visita per un tè”. Sono state bravissime e ho deciso che anche per il film mi sarei fidato della loro improvvisazione. Per molte scene ho raccontato loro la situazione, quello che doveva succedere e le ho lasciate libere. In quelle ambientate a scuola hanno fatto praticamente tutto da sole, e sono molto spassose, molto convincenti. I bambini, se trovi la chiave giusta, sono dei concorrenti temibili per gli attori professionisti.


Tra poco La vita accanto uscirà in sala. Il pubblico del festival di Locarno, lo ha apprezzato molto, ma la critica? Come ha reagito? 

Sì, al pubblico del festival è piaciuto. Durante la prima proiezione non volava una mosca e ogni tanto si sentiva qualcuno che tirava su col naso per la commozione. Anche la critica mi pare abbia reagito bene, ma devo dire che io mi concentro soprattutto sulle recensioni positive, non voglio affliggermi. Tra l’altro quando le vedi stampate pensi siano tutte autorevoli, ma non è vero, alcune magari nessuno le leggerà mai. Come ti ho già detto, mi ha colpito che diversi critici abbiano trovato questo film molto diverso dalla mia produzione precedente. A me non sembra affatto. Lo vedo molto legato agli altri. Forse viene percepito così perché non c’è l’elemento storico politico, o perché, libero dal vincolo che ti impongono le biografie e i fatti reali ho ampliato gli orizzonti del racconto.  A me sembra addirittura che questo film sia uno spin-off di La meglio gioventù. I personaggi potrebbero essere dei cugini vicentini di La meglio gioventù. Penso che avrei potuto infilarne tranquillamente dei pezzi già in quel film là. Non è escluso che non lo faccia.

Foto a cura di Angelo R. Turetta

di Caterina Taricano
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