Intervista a Johnnie To

Paola Casella ha intervistato il regista Johnnie To.

A Hong Kong e dintorni è considerato una divinità, ma anche a livello internazionale il regista e produttore Johnnie To è un unicum, rispettato da tutti e idolatrato da molti (uno per tutti: Quentin Tarantino) per la sua prolifica attività e per il taglio inconfondibile dei suoi film, che attraversano i generi del gangster movie, del wuxia, del noir, persino della commedia, e in passato  hanno rimesso in sesto l’industria cinematografica di Hong Kong che era prossima al fallimento. Oggi To sta per compiere 70 anni ma è ancora in gran forma, ha perso peso e guadagnato in ironia, caratteristica che del resto non gli è mai mancata. Ed è già al lavoro ad un nuovo film con la pop star Anson Lo.

Johnnie To sarà protagonista domani di un’attesissima Masterclass presso Qumra, il grande raduno cinematografico organizzato dal Doha Film Institute nella capitale del Qatar. Ma ci ha concesso questa intervista in anteprima, parlando un po’ in cinese (con traduttrice) e molto in un inglese bizzarro e irresistibile.

L’amicizia fra uomini è il tema di molti suoi film. Perché è così importante?

Personalmente amo lavorare sempre con la stessa squadra di tecnici e attori perché mi piace circondarmi di persone a cui voglio bene e che mi capiscono al volo, senza farmi perdere tempo a spiegare ciò che voglio: conoscono il mio metodo e ci si adattano facilmente, e condividono la mia una prospettiva sulle cose, che è inevitabilmente maschile. I buddy movie mi piacciono anche come spettatore, quelli dove un gruppo di amici piangono, ridono e combattono insieme contro il mondo.

Nel 1992 ha girato e prodotto anche quello che potrebbe essere considerato un buddy movie al femminile, Heroic Trio, che ha avuto un seguito l’anno dopo, Heroic Trio 2: Executioners.

E a Hong Kong hanno entrambi avuto un enorme successo, anche perché due delle tre protagoniste erano Maggie Chung e Michelle Yeoh (la terza era Anita Mui, purtroppo mancata pochi anni dopo, ndr). Ma devo dire che non ho notato nessuna differenza fra il dirigere un buddy movie al femminile invece che al maschile: le dinamiche di solidarietà e di umorismo erano le stesse.

Qual è lo stato dell’industria cinematografica di Hong Kong oggi?

Pessimo, forse il peggiore di sempre. Ed è dovuto soprattutto al fatto che non c’è ricambio di pubblico: i giovani – non solo a Hong Kong ma in tutto il mondo – restano appiccicati ai loro device e non vanno più in sala, mentre quando ero giovane vedere un film al cinema tutti insieme, seduti vicini al buio, e emozionarsi per le immagini che apparivano sul grande schermo era una soddisfazione indescrivibile. Il tempo libero dei giovani oggi invece è allocato in modo opposto in termini di socializzazione: ore da soli sul cellulare o sul tablet, minuti con gli amici in carne ed ossa. Oggi a Hong Kong una sala con cento spettatori è considerata un successo strepitoso.

Ma lei ha ancora voglia di fare il regista e il produttore.

Sa, ma mi sento vecchio, e spesso mi viene voglia di lasciar perdere: potrei sempre ritirarmi a bere whiskey, fumare, fare altro. E andare ai festival dove il cinema d’autore si vede ancora, circondati da gente che ama vederlo in sala, insieme agli altri, apprezzandone il senso di aggregazione sociale.

L’idea di girare un film con la pop star Anson Lo è un modo per riacchiappare il pubblico giovane?

Ovviamente, faccio il produttore, oltre che il regista (ride). Ma Anson Lo è davvero un ottimo attore e un personaggio interessante, a prescindere dal suo ascendente sui ragazzi, e soprattutto le ragazze.

Inoltre ha appena finito di produrre una serie per il piccolo schermo, che si intitola Hope

È una serie drama in 12 puntate, la prime delle quali è andata in onda proprio ora a Hong Kong, e racconta tre famiglie i cui protagonisti sono continuamente posti davanti alla domanda “what if”: che cosa succederebbe se prendessi questa strada invece di quell’altra?, e così via. È una serie sulle scelte che ognuno è chiamato a fare, e sulle conseguenze non sempre positive di quelle scelte.

Come mai è passato a produrre serie, lei che ama tanto il cinema in sala?

Perché sono le uniche produzioni su cui gli investitori ritengono ancora di poter guadagnare. Il 70% dei film di Hong Kong oggi finisce in perdita, dunque quest’anno sono stati girati solo due lungometraggi per la sala.

Ci sarà un Election 3, magari per risollevare ancora una volta l’industria del cinema?

Lo spero, ma quando ho girato il primo e il secondo Election sentivo il bisogno di raccontare alcuni aspetti specifici della società di Hong Kong dei primi anni Duemila, che stava cambiando profondamente rispetto al passato. Non saprei invece come descrivere la società di oggi. Mi sento come un osservatore che deve ancora capire dove andremo a parare.

È cambiata la società o è cambiato il cinema?

Il cinema non cambia mai (ride).

I protagonisti dei suoi film sono spesso vittime di un destino ineluttabile. Ha a che fare con la tragedia greca?

Le mie principali fonti di ispirazione sono la filosofia greca, ancor più della drammaturgia, e la tragedia scespiriana. I greci e Shakespeare sono stati i primi a sviscerare il dilemma del vivere.

Ha mai pensato di lavorare a Hollywood?

Ci ho provato, ma ho capito che lì un film non appartiene al suo regista e nemmeno al produttore: solo agli investitori, che possono chiederti di cambiare qualsiasi parte che non è di loro gusto. A Hong Kong almeno questo non succede.

Girerebbe un film con il suo fan numero uno, Quentin Tarantino?

Ma lui ha detto che non farà più film!

Be’, gliene manca ancora uno… Vediamo allora se mi chiama.


di Paola Casella
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